A felice conclusione del lungo, avventuroso viaggio entro il labirintico mito della Dea Bianca, Robert Graves aveva scritto: «Un profeta come Mosè, o come Giovanni Battista, o Maometto, parla in nome di una divinità maschile e afferma: “Così dice il Signore!” Io non sono il profeta della Dea Bianca e mai oserei affermare: “Così dice la Dea!”. Ma la semplice dichiarazione piena di amore: “Nessuno più grande, della Triplice Dea!” è stata sempre fatta, implicitamente o esplicitamente, da tutti i poeti della Musa da quando ebbe inizio la poesia.» Per comporre nel 1948 la Dea Bianca, il tanto osannato saggio sul mito della Dea Madre nella cultura pre-ellenica, Graves aveva impiegato sei settimane; ma gli ci vollero dieci anni per revisionarlo, tallonato anche da non poche critiche.
I simboli che lo avevano guidato in quella fortunata impresa erano presenti nella copertina americana disegnata da Kenneth Gay: la Triplice Dea porge una palma al navigante in preghiera, ritto sulle onde, in cielo le tre grù a lei sacre, il divino serpente distributore dei venti, la stella guida. «Basta consultare le fonti principali, e se conosci il periodo, il libro si scrive da sé». Quanto alle fonti principali, le aveva probabilmente trovate in casa sua: il nonno irlandese, Edward Graves, aveva scritto sull’ogham, l’alfabeto irlandese degli alberi, mentre il prozio tedesco Leopold von Ranke, un famoso storico, quasi di certo possedeva Il matriarcato del 1861 di J. J. Bachofen e forse anche i due volumi di Lewis H. Morgan, The League of the Ho-dé-no-sau-nee or Iroquois (del 1851), uno studio sul «diritto della madre» diffuso non solo in Europa, ma in tutto il mondo. Quel tema provocatorio era destinato a riecheggiare ogni volta che si parlava di comunismo primitivo, di critica della violenza, di un’utopica società senza classi. E ovviamente dei diritti delle donne.
Finito il mitopoietico tour de force, Graves non aveva esaurito del tutto la sua spinta affabulatoria. E l’anno dopo, da quell’esperto storyteller che era, in una pausa vuota, lontano dai libri, scrisse e pubblicò in un batter d’occhio, l’elegante, umorale utopia-distopia Sette giorni fra mille anni (ottimamente tradotto da Silvia Bre e con un importante saggio di Silvia Ronchey, Nottetempo, pp. 413, euro 20,00). Il protagonista è un eccitabile poeta, Edward Venn-Thomas, alter ego dell’autore.
A Nuova Creta, nell’amoroso paese della Dea Madre, il diritto matrilineare-dionisiaco è legge, e vi sono accolti quei poeti che Platone aveva cacciato dalla sua Repubblica. Venn-Thomas è stato cortesemente invitato per servire doppiamente come testimone dell’epoca tardocristiana da cui proviene, di cui i nuovi cretesi avvertono ancora il fascino, e come controprova della bontà dei loro valori morali e del nuovo ordinamento sociale che impone loro bizzarre (per noi) consuetudini. Ad esempio, per fare sesso sarà sufficiente che i due corpi fluttuino in aria, e per concepire ci si dovrà distendere sulla tomba del defunto amato, che rinascerà e presto tornerà in forma.
Gli uomini, belli, sereni, felici, privi di rughe, sventolano nomi irochesi come Vedo Un Uccello, Apri Per Favore, Pane E Fichi, Stella Di Mare. Non sono in conflitto con le donne, né tra di loro perché le classi sociali sono abolite e al loro posto vi sono cinque caste, che si contano sulle dita: il pollice, ossia i capitani, la casta nobile, l’indice, che sta per gli archivisti dediti alla educazione e alla cultura, il medio, il dito degli sciocchi, che rappresenta il popolo, più numeroso, il quarto che è il dito dei servi, poco autonomi, infine il mignolo, il ditino dei maghi, pochi ma attivissimi.
I sacerdoti appartengono alla casta dei servi, e il Re, che sarebbe il servo supremo, appartiene invece alla casta del popolo, così che il potere politico e quello spirituale siano separati. Le guerre si fanno ma senza combattere, e il vincitore è graziosamente dichiarato di comune accordo. Non ci sono contratti, ma scambio di doni. Né ci sono forze dell’ordine, perché il colpevole del più lieve reato si autodenuncia, si autopunisce, muore e rinasce in altra casta entro breve tempo.
Ma il lavoro più originale è quello degli archivisti dai quali ci sarebbe molto da imparare. Ritratti e paesaggi sono considerati inutili di fronte alla fragranza del vero; così il gabinetto, l’inceneritore, il trattore alterano il nostro intimo rapporto con la natura. La storia necessaria, il racconto del fallimento della cultura tardocristiana, è racchiuso in un Compendio di storia dove si prefigura la fine del papato che sarà trasferito da Roma a San Francisco, il Gesù israelita sarà distinto dal Cristo divino che alla fine si chiamerà Pace, tout court – un ironico omaggio alla moda fantascientifica, da Tommaso Moro a Orwell. Un allegro ridimensionato è imposto ai poeti, primo fra tutti Shakespeare. L’abnorme quantità di libri scritti su di lui sono stati ridotti dai neocretesi a tre pagine, la sua opera a trenta. «Abbiamo tenuto solo ciò che Shakespeare aveva scritto quando era autenticamente ispirato».
Il Canone Inglese è condensato e semplificato. «Robin Hood è l’Omero inglese». Una poesia di Venn-Thomas, ossia di Graves stesso, è stata attribuita al poeta Tseliot, figura composta anche da altri poeti contemporanei – sommersi dalla grande piena del miticheggiante Waste Land di Eliot. A Nuova Creta si privilegia invece la diretta conoscenza dei miti e della letteratura mitica, un patrimonio degno d’essere inciso su lastre d’oro – altro sberleffo a James Frazer, a Joseph Campbell e a se stesso. Quanto alla musica, una gentile donzella accompagna sul liuto una canzone di John Dowland, ma epurata del testo originale.
Mancano il Male e il Comico nel mondo della Grande Madre, ma Graves stesso, che traspare sempre di più da sotto la maschera di Venn-Thomas, agita le acque. Va in giro scontento in cerca di Gauloises, un buon pasto finalmente ed eccitanti vari; osserva con occhio scettico le prime crepe di quella società infantile, non resiste alla tentazione della sua terribile sfidante, quella Laura Riding che, sotto mentite identità neocretesi, lo seduce di nuovo. Con lei, ex-amante e collaboratrice, nel 1927 Graves aveva scritto A Survey of Modern Poetry e l’anno successivo e A Pamphlet Against Anthologies, due libri di successo che avevano introdotto noi anglisti alle raffinatezze del New Criticism americano.
Silvia Ronchey ricorda che Laura Riding era stata anche autrice di The World and Ourselves, «manifesto di un femminismo messianico che lei, la Dea Bianca, aveva pubblicato subito dopo averlo tradito, abbandonato e rinnegato». Graves, quasi in risposta, mette sotto accusa le debolezze e le contraddizioni della legge della Grande Madre che ci avrebbe donato un «raccolto di dolore, poiché il vero amore e la vera saggezza nascono dalla sventura.» Si toglierebbe la sua perpetua maschera di crudeltà, «in segreto, e di rado, solo per i pazzi, i poeti e gli amanti» (citazione occulta dal Sogno di una notte di mezza estate.)
Qui Graves, sul punto di lanciarsi in una predica quaresimale, chiede aiuto a Shakespeare. Gli risponde Ippolita, regina delle Amazzoni, vinta e violentata da Teseo, che lo segue riluttante e rassegnata alle fastose nozze riparatrici. All’improvviso è assalita dalla nostalgia: «Un tempo ero a Creta con Ercole e Cadmo a inseguire l’orso in un bosco con bracchi di Sparta. Mai avevo udito un abbaiare così gagliardo. Oltre i boschi, il cielo, le fonti, ogni terra vicina sembrava un solo comune latrato. Mai avevo udito una discordia così musicale, uno strepito così eloquente.» Questa, secondo il poeta, era la libera vita nel tempo felice della Dea Madre.