Le rivelazioni emerse questa settimana, dipingono un quadro di Trump Tower, prima e dopo le elezioni, come un crocevia di lobbysti stranieri. Oltre che con i russi incontrati a più riprese dal figlio e da stretti collaboratori di Trump, la campagna del futuro presidente avrebbe intrattenuto ripetuti rapporti con esponenti di altri governi esteri (la cui ingerenza nelle elezioni è espressamente vietata).

SAUDITI E ISRAELIANI sarebbero stati assidui frequentatori della cerchia trumpista, aiutando a far luce sulla postura successivamente adottata dall’amministrazione Trump nella regione.

Fra quelli venuti alla luce un incontro in particolare fu fra il figlio primogenito di Trump, Erik Prince – fondatore della famigerata appaltatrice di mercenari Blackwater – un lobbysta per gli Emirati arabi uniti, George Nader, e Joel Samel, specialista israeliano in campagne di disinformazione e diffamazione. Le black ops (come quelle affidate dalla campagna Trump anche a Cambridge Analytica e all’altra israeliana, Black Cube) servivano a vincere le elezioni; gli altri invece già alle politiche dell’eventuale nuova amministrazione. Nader e Prince, loschi figuri di un sottobosco di profittatori di guerra strettamente legati alla famiglia Trump percepivano infatti lauti compensi dalle monarchie dei Saud e degli Emirati per influenzare le politiche estere Usa. Con un terzo partner, già tesoriere del comitato centrale repubblicano – Elliot Broidy – gli uomini lavoravano per i sauditi e per Mohammed bin Zayed, principe ereditario degli Eau, a cui avrebbero assicurato di poter rivoltare Trump contro il rivale regionale dell’emiro: il Qatar. Dopo le elezioni, 2017 appena prima dell’insediamento di Trump, Prince e Nader parteciparono, con bin Zayed, anche a un incontro segreto alle Seychelles con l’oligarca russo Kirill Dmitiriev. Broidy intanto, che aveva incassato una parcella di «consulenza» di 36 milioni di dollari dagli Emirati (parte di un contratto complessivo di 600 milioni), si incontrava ripetutamente con Trump perorando il sostegno della guerra in Yemen e una più esplicita politica anti-Qatar, per conto dei sauditi, come rivelato da Associated Press.

DAGLI STATI DEL GOLFO giunsero fondi per finanziare un convegno (il maggio scorso) dalla Foundation for Defense of Democracies in cui «esperti» caldeggiavano lo spostamento della base aeronautica americana di Al Udeid dal Qatar agli Emirati. Pochi giorni dopo, il primo viaggio presidenziale portava Trump in Arabia Saudita a concludere vendita di armi per miliardi di dollari e riconfermare l’inamovibile asse Washington-Riad (con cui Trump fa affari sin da quando cedette loro il Plaza hotel di Manhattan).

L’INVESTIMENTO ARABO (e israeliano) era destinato a fruttare ulteriori dividendi con la rottura dell’accordo con Teheran e lo spostamento dell’ambasciata Gerusalemme. Ma prima gli emiri tenevano a regolare i conti col rivale Qatar. Una figura centrale dell’inciucio affaristico-geopolitico fra le plutocrazie (Saud e Trump) sembrerebbe essere stato Jared Kushner, genero favorito e special advisor con la (risibile) delega alla pace in medio oriente.

Kushner faceva parte della delegazione della visita di Trump in Arabia e a ottobre avrebbe intrapreso in gran segreto una nuova trasferta lampo a Riad a dare implicito imprimatur americano all’epurazione contro i propri rivali interni (travestita da operazione «anti corruzione»), intrapresa pochi giorni dopo dal principe Mohamed Bin Salman.
Ma c’erano in ballo interessi anche più specifici. Nel 2006 Kushner aveva concluso un mastodontico affare per l’acquisto di un grattacielo al civico 666 della Quinta strada a Manhattan, Per finanziare l’acquisto del valore di 1,2 miliardi di dollari, Kushner, rampollo di una dinastia immobiliare, aveva ipotecato gran parte delle proprietà di famiglia indebitandosi poi per ulteriori 500 milioni.

SFORTUNATAMENTE PER LUI, quasi immediatamente dopo, il mercato era collassato nel crack del 2007 e da allora il mega grattacielo si è trasformato in buco nero sul bilancio aziendale dei Kushner, con un ipoteca che sopravanza di molto gli utili degli affitti.

Da allora Jared, sotto la spada di Damocle di un megapagamento sugli interessi maturabili nel 2019, ha cercato soci e finanziatori in mezzo mondo, Europa, Russia, Cina e Medio Oriente. Un accordo che sembrava cosa fatta con la finanziaria Anbang di Pechino è decaduto all’ultimo minuto e così anche il successivo investimento da parte dello sceicco qatariota Hamad bin Jassim al-Thani. Forse però i qatarioti avevano solo bisogno di essere più «motivati».

POCO DOPO LA VISITA di Trump in Arabia, guarda caso, è scoppiata la strana querelle fra i Sauditi ed il Qatar che con Emirati uniti denunciano l’emirato per «sostegno al terrorismo» e annunciano l’embargo commerciale del vicino, presentando un ultimatum con 13 condizioni fra cui la rottura dei rapporti diplomatici con l’Iran e la chiusura immediata di Al Jazeera.

Da Washington Trump fa eco via Twitter: «Il Qatar deve smettere di sovvenzionare il terrorismo», cogliendo in contropiede il suoi stessi capi di stato maggiore – ma facendo la fortuna di Nader, Broidy e co. che incassano la parcella degli emiri per una consulenza ben fatta. L’impasse fra Qatar e i vicini dura tutt’ora ma l’ultimo risvolto è l’annuncio della scorsa settimana che sarebbe ora in via di definizione un accordo di capitalizzazione della Kushner Co., da parte del fondo controllato dal Qatar, il che fa balenare un motivo, ben più pratico per mettere sotto pressione il Qatar e ottenere un bailout di una azienda di famiglia del «leader del mondo libero».

È la misura della corruzione che sottende sempre più apertamente che il «rottamatore populista» invece di «drenare la palude» di Washington, sembra applicare allo scacchiere mondiale i soliti metodi da palazzinaro.