La decisione del tribunale del riesame ha una grande importanza per la democrazia italiana a debole cultura liberale, e con una forte propensione conformistica delle classi dirigenti, sempre pronte a venerare ogni vincitore occasionale. Dopo la procura di Agrigento, che contestava a Salvini dei reati contenuti nel suo divertimento estivo preferito, quello di lasciare i migranti neri a cuocere sotto il sole, anche a Genova si rammenta al vero capo dell’esecutivo che il successo politico non cancella i delitti accertati.

Per ora, in mancanza di ogni opposizione politica e sindacale, l’indipendenza della magistratura garantisce la tenuta di alcuni pilastri dell’ordinamento. Non è la riproposizione dello stesso conflitto dei primi anni ’90. Allora la magistratura abbatteva un ceto politico assai debole, con le manette ai polsi, aggredito dai media unificati. Oggi le toghe resistono a un potere non già morente, e linciato in maniera stomachevole con le monetine in piazza, ma a un regime in gestazione che vanta nei sondaggi un consenso plebiscitario. Così plebiscitario che Salvini rivendica la pretesa di parlare a nome degli italiani e minaccia il risveglio dell’ira dei giusti contro i soprusi dei liberi tribunali.

Le reazioni governative alla decisione del riesame svelano la miseria del giustizialismo. Entrata in parlamento con le sue truppe padane inveendo contro Roma ladrona, e esibendo in aula i cappi quale simbolo della esecuzione sommaria della casta politica, la Lega nella sua voracità di potere si è macchiata di reati familistico-clientelari così infamanti da far apparire gli inquisiti della Prima repubblica un esercito di educandi. La pretesa di Salvini di affermarsi come il nuovo potere legibus solutus confida su un brutto clima che vede la cosiddetta opinione pubblica appassionarsi più per la caccia grossa al migrante, guidata dal capo leghista che promette pistole elettriche, che non per le truffe commesse ai danni di quell’astrazione impersonale denominata Stato.

Il presidente del consiglio si è affrettato a escludere delle conseguenze politiche per la vicenda dei 50 milioni spariti. Eppure aveva concesso un’intervista, per raccontare dei suoi poco memorabili cento giorni a Palazzo Chigi, che si concludeva con un omaggio al principe dei giustizialisti: «far capire a tutti che la corruzione, semplicemente, non conviene». I commentatori si sono cimentati per trovare l’origine della autodefinizione di Conte come «avvocato del popolo».

Qualcuno ha scovato una genesi giacobina. I giacobini, che erano dei moralisti e incorruttibili per davvero, non c’entrano nulla con uno scaltro devoto di padre Pio. La paternità della formula in realtà risale al leader della destra radicale austriaca Haider. Egli si proclamava «Anwalt des Volkes» e professava le stesse credenze del governo gialloverde.

I campioni del giustizialismo di nuovissimo conio, che si erano fatti largo con il grido ritmato «onestà-onestà», hanno già archiviato le parole solenni del vecchio capo comico. Egli prometteva: nelle alleanze, secondo il M5S, «le porte per i partiti, anche per quelli riverginati, sono chiuse, serrate per sempre». Parole falsamente profetiche di purezza, intransigenza, indisponibilità al compromesso, subito archiviate dalle prove di disinibito accaparramento dei posti di comando, divisi con chiunque fosse disponibile alla spartizione delle spoglie.

Un foglio governativo come il Fatto ha già trovato la maniera più furbesca per fare finta di nulla dinanzi alle nefandezze del governo bicefalo: smembrare l’esecutivo in una componente buona, dalle sembianze grilline, e in una mela marcia da censurare, dal truce volto salviniano. Peccato che l’indirizzo politico, in una democrazia parlamentare, non sia suscettibile di simili spartizioni, poiché la responsabilità politica è sempre azione condivisa.

Gratta il giustizialista, che gestisce la cosa pubblica nelle stanze del potere in nome del cambiamento o pontifica nei media in omaggio ai principi della moralità assoluta, e scovi sempre l’ipocrisia, la mancanza di ogni seria cultura liberale della legalità, la distanza abissale da una vera moralità politica. Il giustizialista oggi al comando troverà sempre sotterfugi retorici per sfuggire alla domanda banale: davvero può restare al Viminale il leader di un partito che ha sottratto tutti quei soldi alle casse dello Stato e chiede l’immunità perché «lavoro notte e giorno per aumentare le espulsioni e allontanare migliaia di indesiderati ospiti»?