È un poeta appartato, Renato Pennisi: si dice così, quando non si è noti al grande pubblico e non ci si sbraccia per esserlo. Pennisi vive a Catania, e nella vita quotidiana è un avvocato. È autore di molte raccolte, di tre romanzi e di testi teatrali. Vanta premi prestigiosi, e di lui hanno parlato, fra gli altri, Arnaldo Colasanti, Silvana La Spina, Giovanni Tesio, Franco Loi.

Nei suoi versi si sente riflessa la luce di Catania, e non è retorica né suggestione: davvero si avverte la presenza del vento che soffia sul viso o smuove i panni stesi, sembra di essere lì – in certi pomeriggi siciliani solari e lucenti, immobili nella controra. Lo vediamo ora anche nella sua ultima silloge L’impazienza, edita da Interlinea (pp. 88, euro 12). In realtà, le poesie contenute si offrono a due possibili letture: la prima consiste nell’abbandonarsi al soffiare del vento, al lirismo, all’eleganza delle immagini, alla sapienza dei versi nella loro costruzione interna, nella successione delle strofe (spesso quartine), nelle rime.

DESCRIVE E RACCONTA, Pennisi, ciò che vede intorno a sé e le reazioni che il circostante gli provoca, il modo in cui il fuori precipita nel dentro. Eppure dietro questo racconto apparentemente intimo, quasi solo interiore, sembra nascondersi anche un ordito diverso, pubblico o perfino politico: ed è forse questo ulteriore racconto, questa possibile seconda lettura, più della prima, a dare ragione dei titoli stessi della raccolta e delle singole parti che la compongono. In altre parole, non sembra essere il cielo interiore il vero protagonista di questi versi, a ben vedere, ma il tempo che stiamo attraversando. Certo: non esiste pubblico senza privatopolitico senza personale, per il semplice motivo che ogni collettività è la somma di tante individualità, e quindi i due poli si specchiano sempre l’uno nell’altro, sempre si influenzano a vicenda. Ma è sul «pubblico», se non ci si sbaglia, che Pennisi concentra di più la propria attenzione.

LA «DISAFFEZIONE» della prima parte sembra quella verso questo nostro tempo, questa nostra contemporaneità (uno dei versi della poesia d’apertura parla di «viali da basso impero», e sembra appunto la connotazione di un’ora e di un qui); così come l’«impazienza» della seconda parte, e del titolo, sembra dover essere intesa, al contrario (o di conseguenza), come l’attesa bramosa di un tempo futuro, nuovo, tutto da costruire, da inventare («possiamo soltanto/essere immaginati», dice infatti il verso di un’altra poesia).

Dove trovare rifugio, intanto? Nella dolcezza e nella bellezza che la vita sa regalare, sembra suggerire il poeta nella terza e nella quarta parte della raccolta: nella dolcezza dei ricordi innanzitutto (come il ricordo della madre, cui la terza parte è dedicata), e nella bellezza di certe epifanie – in particolare di certi attimi eterni appartenenti all’infanzia, nostra o dei nostri figli. Ed è qui la possibile riconciliazione, nel calore delle piccole cose: come a dire che è da qui che dobbiamo ricominciare, è questa la giusta misura del futuro da inventare. Nel frattempo, «l’essere qui è comunque/ una vittoria».