Prima volta in tv di Piero Grasso, ed è subito un vespaio di polemiche. I dirigenti della lista Liberi e uguali guardano con soddisfazione i dati di ascolto di Che tempo che fa di domenica sera (4milioni di telespettatori, c’erano anche gli U2, in realtà i numeri di Fabio Fazio sono in calo) e gioiscono per lo scampato pericolo: quella del presidente del senato è stata una performance tutto sommato buona per un battesimo. «Poteva andare anche molto peggio», ammettono.

MA FUORI DALLE STANZE di via Zanardelli (la sede di Mdp) si scatena la polemica. Il dem Michele Anzaldi prende male la lunga inquadratura del simbolo rosso fiammante («amaranto», lo definisce Grasso) della lista Leu. «Una rovinosa caduta di stile», attacca, «una violazione gravissima da sottoporre all’Agcom». Violazione ‘de che’ non è chiaro: la par condicio non è ancora in vigore. Per Sergio Boccadutri (ex Sel ora Pd) consisterebbe nell’aver mostrato il simbolo «come in una tribuna politica», «privilegio» negato ad altri ospiti. Qualcuno ha impedito a Renzi, una settimana fa nella stessa trasmissione, di sventolare le insegne tricolori Pd? Si scatena la contraerea grassista: «Attacchi scomposti» mossi da «ardore da sentinella del renzismo», replica il senatore Gotor (Mdp). «Reazioni al limite dell’isterismo», per Fratoianni (Si). Dal Pd si attacca anche la scelta del nome nel simbolo dopo tutta la retorica (antirenziana) sul passaggio «dall’io al noi». «Non lo volevo, mi hanno detto che è come il braccialetto che si mette ai bambini appena nati», si giustifica Grasso. Intanto però i compagni separati ex area Pisapia si preparano a poortare in dote al Pd una lista «Sinistra progressista», parole lasciate orfane dai Liberi e uguali.

MA LE CRITICHE PIÙ TEMIBILI arrivano per un altro passaggio dell’intervista. E da un fronte interno. Nasce da una frase impacciata a proposito della «E» che unisce «Liberi» e «Uguali», segno grafico che al conduttore fa pensare a tre «foglioline». «Abbiamo come elemento fondante la parità di genere», spiega Grasso, «Ci sono delle foglioline accanto alla ‘i’ che danno l’idea dell’ambiente» e «questa ‘E’ che dà la possibilità di individuare le donne come elemento fondante nella nostra formazione politica. Del resto madri, sorelle, compagne e lavoratrici sono coloro che possono aiutarci a cambiare il paese».

QUESTA «E» IN REALTÀ è la toppa grafica all’inspiegabile scelta di un logo maschile plurale e chequalche dissenso ha sollevato soprattutto fra le ex Sel. Svarione politico di diretta derivazione da una leadership fatta solo di «ragazzi di sinistra»: Grasso, Speranza, Fratoianni, Civati, per non parlare dei padri nobili Bersani, D’Alema, Epifani, Vendola. Questione seria, che in molti (e molte) credono di veder riequilibrata con l’ingresso in squadra di Laura Boldrini (annuncerà il suo sì a Grasso il 22 dicembre a Roma, quartiere San Lorenzo).

INTANTO UNA PIETOSA MANO grafica fa quel che può. Peraltro il creativo in questione è il fratello di Pippo Civati, Alberto, a titolo gratuito. «Ho giocato con la ‘E’ facendola diventare un elemento grafico che potesse dare una lettura al femminile, così che Liberi potesse esser letto anche come Libere».

Sui social l’hastag #foglioline tiene banco, l’onda filorenziana si scatena. Si accusa il candidato di un paragone botanico che in realtà non ha fatto. Ma i tweet a cui Grasso&Ditta dovrebbero prestare attenzione sono altri. Fulvia Bandoli, femminista e ecologista: «Nome nel simbolo e tre foglie multitasking ambiente/Costituzione/donne? E definirle ancora mogli fidanzate compagne? Hanno nomi, cognomi, storie e lotte di libertà e hanno detto no a ruoli di fiancheggiamento da un secolo». Lorella Zanardo, autrice a suo tempo vicina a Nichi Vendola: «Schedine, meteorine , veline. Per Natale la sinistra di Liberi e uguali promuove le donne e definisce il nostro ruolo: foglioline». C’è un fraintendimento, spiega Maria Cecilia Guerra, capogruppo Mdp al senato (e unica donna del gruppo di punta di Leu) e tuttavia «Grasso si è fatto carico di un problema, che esiste, che riguarda sia la minor presenza delle donne nei ruoli di dirigenza dei partiti, sia l’utilizzo di un linguaggio al maschile che non rappresenta la parità fra i generi».