Il macigno dei settanta e passa milioni di emendamenti andava in qualche modo superato. Altrimenti l’ultimo voto del senato sul disegno di legge di revisione costituzionale sarebbe slittato di circa duecento anni. Renzi ha chiesto è ottenuto che arrivi invece entro il 13 ottobre, prossimo. Il Pd aveva suggerito al presidente del senato una via d’uscita: respingere tutti gli emendamenti senza la firma autografa del proponente. Il leghista Calderoli, che agli uffici ha depositato un pacco di dvd riempiti con il copia incolla. Pietro Grasso non ha accolto questo criterio, anche perché la firma digitale in parlamento è ammessa. Per ottenere lo steso risultato, però, il presidente del senato ha dovuto introdurre un principio assai più astratto. Ha stabilito che gli emendamenti di Calderoli sono irricevibili (prima ancora di una valutazione di merito che li avrebbe al più resi inammissibili) in ragione proprio del loro numero «abnorme».

Naturalmente il regolamento del senato (tanto invocato dal Pd in questi giorni a proposito della doppia lettura conforme) non prevede nulla del genere. Pur essendo stato rivisto più volte per limitare l’ostruzionismo, non aveva immaginato Calderoli e il suo software per la produzione in serie di emendamenti. Grasso ha fatto un richiamo all’articolo 55 del regolamento, dove si parla del rispetto del calendario dei lavori d’aula, è ha potuto farlo perché la conferenza dei capigruppo ha già segnato una data di conclusione al dibattito sulle riforme. Per chiudere in due settimane, dei dvd di Calderoli non si può nemmeno parlare. Il criterio numerico introduce un precedente assai delicato: questa volta nessuno può mettere in discussione l’enormità della mossa leghista, ma d’ora in poi si tratterà di stabilire un confine quantitativo agli emendamenti. Che cosa è «abnorme», considerando che per la maggioranza gli emendamenti della minoranza sono sempre troppi? Spariti i milioni, ne resta 380mila al ddl Renzi-Boschi. E anche questi bisognerà cassarli o saltarli con il «canguro» per rispettare i tempi.

Da quando è diventato un nemico pubblico per i renziani, da quando cioè non ha escluso la possibilità teorica di riaprire la questione della composizione del senato, il presidente Grasso ha già concesso al governo il passaggio immediato del disegno di legge in aula saltando la commissione e il taglio dei tempi in discussione generale. Ha anche acconsentito a fissare una scadenza ravvicinata, per quanto cinque giorni più avanti di quella desiderata dal presidente del Consiglio (che però, malgrado le soffiate malevole, sa benissimo che il referendum finale nella primavera 2016 è fuori portata; tre mesi fa lo ha anche ammesso in pubblico). Ora lo aspetta la decisione più attesa sull’ammissibilità degli emendamenti al cuore dell’articolo 2, quelli che potrebbero rimettere in pista l’elezione diretta dei senatori e che contano su una maggioranza teorica alternativa a quella di governo. O meglio contavano, prima dell’accordo nel Pd che adesso i senatori della minoranza – se non tutti un numero sufficiente per il governo – sentono come un vincolo. Grasso ha comunicato ieri che comunicherà la sua decisione sull’ammissibilità «articolo per articolo». Dunque il governo non sa ancora come regolarsi nella trattativa con la minoranza Pd sulle altre due questioni rimaste aperte: i quorum per l’elezione del presidente della Repubblica e la norma transitoria, che com’è scritta adesso rinvierebbe di alcuni anni la partecipazione (per quanto indiretta) dei cittadini all’elezione dei senatori. Protesta il sottosegretario Pizzetti, il cui problema è dimostrare che i tanti senatori ex berlusconiani che stanno arrivando in soccorso del governo non sono indispensabili e dunque non c’è una maggioranza alternativa. Lo sguardo è ancora alle richieste dei bersaniani. «Rimandare la decisione sull’ammissibilità degli emendamenti è un freno a un’intesa politica complessiva sulle modifiche», dice Pizzetti.
Intanto le opposizioni protestano per il modo in cui Grasso ha salvato il governo respingendo tutti gli emendamenti di Calderoli che non erano già stati presentati in commissione. «Sbaglia chi teme un futuro regime, il regime c’è già con il governo che asfalta le regole e che con una risata seppellisce gli emendamenti», si allarma il forzista Malan. E Renzi che è a New York così si difende: «Quando nel mio paese alcuni dicono “Renzi è contro le procedure della democrazia” io rido».