Strano destino quello di Grant Wood, se ne si compulsa l’intricata fortuna bibliografica oggi che una retrospettiva affollatissima sceglie di rileggere la sua parabola creativa, occupando il quinto piano del Whitney Museum in un contrappunto efficace con la scelta delle collezioni permanenti operata da David Breslin sotto al titolo An Incomplete History of Protest (già commentata su queste pagine).
Un’altra monografica consacrata alla sua riscoperta – dopo gli eventi dedicatigli in vita o in morte – venne infatti inaugurata nel 1983 su progetto di Wanda M. Corn, trascorso un biennio dall’insediamento di Ronald Reagan come presidente degli Stati Uniti, mentre la mostra odierna segue di poco più di dodici mesi l’elezione alla stessa carica di Donald Trump: è difficile dunque sottrarsi al sospetto di un ricorso storico, soprattutto se si considera quanto James M. Dennis abbia messo in luce l’uso politico della fama pop di Wood nella nazione uscita dal terribile olocausto della guerra in Vietnam.
Certo, un appuntamento come quello del Whitney è frutto di una programmazione dilatata rispetto al poco tempo che separa il 2018 dal trionfo dello spregiudicato immobiliarista: tuttavia icone della fatta di American Gothic o Stone City, nel contesto attuale del paese, si caricano della consistenza di una precisa interrogazione, rinviando a un immaginario localista e retrò – radicato in profondità fra i paesaggi di un Iowa sognato, perduto – in grado di richiamare lo zoccolo dell’elettorato del magnate repubblicano, alla base del suo non scontato successo nel gennaio del 2017.
A questo proposito non sarà ininfluente rammentare come proprio nel 1941, e cioè un anno prima della scomparsa di Wood (il quale era nato nel 1891), lo stato al centro della Corn Belt avesse tradito Franklin D. Roosevelt voltando le spalle al progetto del New Deal in una catena che vide ribellarsi l’intero Midwest alla prospettiva nazionale e accentratrice delle delibere presidenziali; quasi una traduzione sullo scenario politico del progressivo irrigidimento dell’ideologia ‘regionalista’, motore nei centri compresi fra Kansas, Missouri e Minnesota di risultati rilevanti durante la Grande Depressione sia sul piano delle vagues letterarie sia su quello, non meno fertile, delle arti plastiche.
Di questa tendenza, Wood fu uno dei protagonisti, ereditando l’armamentario mitopoietico nutrito da un discorso retorico rimontante perfino ad Abramo Lincoln, il quale nel 1862 individuava in quelle terre un’entità autonoma, «il grande corpo della Repubblica», una delle aree «più importanti al mondo» per i suoi «raccolti… e per le coltivazioni che vi germogliano»; e anzi, il pittore all’inizio degli anni trenta – vivendo una svolta che lo avrebbe allontanato dal lessico post-impressionista appreso a Parigi fra 1923 e 1926 – poté riconoscersi nella lezione di ‘pionieri’ come Bernard DeVoto o Stuart Pratt Sherman, i quali in polemica con colossi fra cui il romanziere Sinclair Lewis propugnavano il ritorno nelle lettere a una prospettiva ‘autoctona’, lontana dal servilismo intellettuale nei confronti della East Coast e del filo-europeismo nutrito dagli ambienti intellettuali newyorkesi.
Conferenziere instancabile e redattore in proprio di manifesti programmatici, Wood avrebbe non a caso chiamato Revolt against the City il suo appello più noto, apparso nel 1935 per la Clio Press di Frank Luther Mott (coeditor del periodico «Midland», stampato dall’University of Iowa, dove l’artista insegnava dal ’34); una denominazione siffatta riecheggiava polemicamente il saggio composto da Carl Van Doren (docente alla Columbia), affidato nel 1921 alle pagine della rivista «The Nation» sotto l’etichetta accattivante di The Revolt from the Village, contributo inteso per segnalare in Lewis, Edgar Lee Masters, Sherwood Andreson e Francis Scott Fitzgerald un gruppuscolo di sradicati ‘urbanizzati’ in rotta feconda con la realtà asfittica della provincia. Non solo: in un dialogo proficuo con la coppia di colleghi costituita da Thomas Hart Benton e John Steuart Curry, il pittore avrebbe rinserrato una falange agguerrita, sotto l’ala di critici e mercanti fra cui Thomas Craven e Maynard Walker, caparbia nel rimettere in discussione il lessico modernista propugnato dalle strade di Manahattan e dagli spazi della Galleria 291 grazie all’attivismo culturale di Alfred Stieglitz.
La mostra del Whitney, curata da Barbara Haskell, si tiene però lontana da tale rigida dicotomia utile alla polemica, problematizzando semmai il rapporto di Wood coi lessici contemporanei dell’astrazione e dei ritorni all’ordine; e non a caso, a differenza di quanto avvenuto per il palinsesto voluto dalla Corn nel 1983, il marchio ‘regionalista’ non si impone alla copertina del catalogo (o ai manifesti pubblicitari) per i quali si è preferito piuttosto un sottotitolo evocativo in grado di magnificare l’enfasi ‘narrativa’ nell’oeuvre dell’artista. Tale decisione si dimostra ovviamente informata delle ricerche di Dennis, il quale nel volume Renegade Regionalists ha illustrato quanto una certa via americana al Moderno – tramite gli insegnamenti di Ernest F. Fenollosa e Arthur W. Dow – prevedesse un divorzio meno definitivo fra i principi di ‘forma’ e ‘contenuto’, concludendo come le esperienze mature di Wood andassero di conseguenza incluse (almeno da un punto di vista stilistico) in un ampio canone progressivo, caratteristico della scena statunitense nella prima metà del secolo.
Al servizio di un simile assunto si pone l’andamento cronologico seguito dalle sale, serrate in un procedere piano e ‘didattico’; tanto più che sono stati riuniti negli ambienti progettati da Renzo Piano tutti i capisaldi del suo catalogo. Vi si ritrovano pertanto in snodi nevralgici del percorso alcune prove della giovinezza (chiarificatore di una peculiare declinazione dell’estetica post-gauguiniana è il dipinto Sunlit Studio del 1925-’26) o la fiamminga Woman with Plants, eseguita nel ’29 al ritorno da un viaggio a Monaco; lo spettrale Victorian Survival del 1931 o l’appena successivo, altrettanto pungente Daughters of Revolution; il pierfrancescano Dinner for Threshers o l’enigmatico autoritratto del Figge Art Museum; le fiabesche meditazioni sull’epica nazionale, da The Midnight Ride of Paul Revere alla Parson Weems’ Fable, composte fra 1931 e 1939. Lo sviluppo del pittore vi traluce allora con nitidezza, fino alla testimonianza estrema di Spring in the country, uno dei traguardi della sua ispirazione di paesaggista, condotta a conseguenze ultime di stilizzazione del dato percettivo, di rarefazione dell’elemento naturale.
Inoltre la Haskell ha voluto attirare l’attenzione sulla produzione Arts and Crafts dell’artista (il quale, d’altronde, fu architetto e arredatore di interni), componente ineludibile dell’utopismo irenico del suo ideale comunitario. Ha perciò convocato al Whitney servizi da tè, lampadari, parafuochi, tessuti e vetri, accanto ai bozzetti delle campagne decorative per contesti di vita quotidiana fra cui la biblioteca dell’Università dell’Iowa, delineando ampiamente il gusto di un ‘creatore’ e di una comunità intera, strettaglisi attorno con incessanti pretese mecenatesche in un rapporto osmotico di intenti e aspettative.
Altra novità, il rilievo garantito al disegno monumentale Soldier in the War of 1812 o al ritratto di Arnold Pyle, punti fermi per il dibattito sull’omosessualità di Wood, suscitato dalle tesi di Henry Adams o R. Tripp Evans (discusse con molto equilibrio da Richard Meyer nel volume di accompagnamento): un ennesimo, importante tassello per questionare l’ambiguo suo linguaggio ‘cifrato’, sospeso di volta in volta fra ironia e complicità, partecipazione e distacco, desiderio e ripugnanza, in un rebus affidato alle indecidibili presenze dei suoi quadri così come agli intransigenti, discordi proclami in fatto di poetiche figurative, a loro volta disseminati in scritti, fotografie e nella studiatissima proliferazione di un’iconografia personale, fatta di tute da lavoro e camicie bianche di bucato.