Nelle storie nazionali l’attenzione al panorama rischia spesso di rubare la scena ai film. Il grosso volume di quasi cinquecento pagine – con le sue minuziose analisi di meno di una ventina di titoli – va evidentemente nella direzione opposta. La ricerca dell’identità nazionale non è affatto facile se si tiene conto della discontinuità del lungo periodo storico che fa da sfondo, dall’impero guglielmino alla Repubblica di Weimar, dal regime nazista alla divisione della Germania nel dopoguerra e poi alla riunificazione, per non accennare neppure ai rapporti con le altre pratiche artistiche e mediali. Nonostante tutte le cautele, la campionatura – che punta sui casi particolarmente rappresentativi, visti da studiosi di diversa formazione, al di fuori di una concezione archeologica della ricerca storica e in grado di attirare l’attenzione del lettore/spettatore contemporaneo – non esclude l’accorto bricolage di chi accetta qualche titolo obbligatorio per sentirsi autorizzato a un minimo di gioco d’azzardo, senza ricorrere per forza alla roulette russa. La galleria si apre con «Lo studente di Praga» (Stellan Rye, 1913), che anche grazie alla capacità combinatoria dello sceneggiatore Hanns Heinz Ewers rielabora in modo originale la tradizione romantica del doppio (Chamisso, Hoffmann) e fornisce il punto di partenza per il primo studio psicoanalitico sull’argomento, «Il doppio» di Otto Rank.

Come dimenticare la scena in cui il riflesso si stacca dallo specchio e s’incammina verso la porta, guardando il protagonista in preda al panico? Mentre la grande stagione di «Il gabinetto del dottor Caligari» (Robert Wiene, 1920) apre la strada a alcune delle pagine più ricche del cinema tedesco con «Nosferatu, una sinfonia dell’orrore» (Friedricich W. Murnau, 1921) e con “Metropolis” (Fritz Lang, 1927), è meno clamorosamente noto ma di grande suggestione «I misteri di un’anima» (Georg W. Pabst, 1926) per il quale il regista austriaco vorrebbe la consulenza del dottor Freud, ma si deve accontentare di due suoi allievi, evitando la spettacolarizzazione alla Hitchcock e utilizzando la tecnica psicoanalitica come metodo di esplorazione. Se ne servirà magnificamente un paio d’anni dopo in «Lulu» (1928) da Wedekind, il capolavoro dell’immensa Louise Brooks che dopo aver messo a soqquadro la vita del ricco Peter Schön, fugge a Londra dove si fa ammazzare da Jack Lo Squartatore. Bellissimi i due capitoli dedicati agli anni trenta con «La sirenetta dell’autostrada» (Wilhelm Thiele, 1930), singolare laboratorio formale del passaggio dal muto al sonoro nel segno dell’operetta che dissolve la trama nella musica, e con Kuhle Wampe, ovvero a chi appartiene il mondo?» (Slátan Dudow, 1932), singolare unicum scritto da Bertolt Brecht e Ernst Ottwalt non è un agit-prop a tesi ma un prodotto della Nuova Oggettività, bandito dai nazionalsocialisti a meno di un anno dalla prima berlinese, finirà dimenticato per più di tre decenni prima di riapparire negli anni settanta come un imperdibile classico del cinema militante e alternativo. «Verde è la mia terra» (Hans Deppe, 1951) è un tipico titolo del periodo in cui la Germania occidentale muove i primi passi e sembra decisa a comportarsi come se non fosse successo nulla, puntando tutto sulla conciliazione intergenerazionale. Finalmente, verso la fine del decennio successivo arriva il Neuer Deutscher Film di Kluge, Herzog, Fassbinder, Wenders, Reiz, che spariglia le carte della produzione corrente, cominciando a mostrarci l’altra faccia della medaglia (pp.487, euro 34,00).