La televisione generalista non è affatto morta – nonostante il vaticinio di Reed Hastings, il ceo di Netflix – ma di certo lo scenario, rispetto ad appena poche stagioni fa, è radicalmente cambiato. Lo testimonia anche un dato recente, nel 2015 oltre il 40% delle fruizioni televisive nel cosiddetto daytime non passa più tramite i canali generalisti, ma viene parcellizzato in una miriade di piccole reti. Un mutamento frutto del passaggio dall’analogico al digitale, certo, a cui si aggiunge l’abbandono del piccolo schermo da parte degli under 20, che si sono creati un palinsesto personalizzato su pc o tablet spesso con «l’escamotage» del download pirata… Lo sbarco anche nel belpaese del colosso americano tra i provider on demand, forte di 69 milioni di abbonati in tutto il mondo, si inserisce quindi in un universo televisivo in costante movimento, come sottolineano le grandi manovre in atto da parte di Rai e Mediaset e del terzo incomodo pay ovvero Sky.

Proprio il giorno prima della presentazione ufficiale di Netflix la Camera discuteva (e approvava con 259 sì) la riforma della Rai. Antonello Giacomelli, sottosegretario allo Sviluppo economico con delega alle Telecomunicazioni, l’uomo che per il governo sta seguendo il percorso di metamorfosi della tv pubblica: dal canone in bolletta alla nuova governance, ha di fatto ’benedetto’ gli intenti futuri di viale Mazzini, ovvero l’idea di poter stare su diverse piattaforme. Un ipotesi già definita – dicono i bene informati – in alcuni piani riservati del direttore generale della Rai Antonio Campo Dall’Orto dove si descriverebbe la nuova piattaforma pronta ad intercettare gli inserzionisti pubblicitari.

Certo come ente pubblico per poter varare un’offerta di questo tipo, sarà necessario che prima il Parlamento approvi una norma ad hoc ad per autorizzare lo svolgimento dell’intera operazione, ma siamo alla stretta finale. Perché quel che ingolosisce la tv di stato è proprio il mercato pubblicitario, già quantificati in circa 60 milioni di euro.

La raccolta pubblicitaria è al centro anche delle battaglie fra Sky Italia e Mediaset; è già un anno che circola la notizia di un possibile e graduale passaggio in chiaro dell’emittente, ora a pagamento, di Murdoch. Un esperimento iniziato con Cielo – dove sono stati riversati alcuni contenuti pay e format di richiamo come X Factor, e proseguito nei mesi scorsi con un canale di all news sul digitale terrestre – che mira a contendere alla tv del Biscione spazi, audience e appunto quote pubblicitarie. Mediaset si muove con cautela e se sul fronte pay cerca il rilancio di Premium dopo l’enorme investimento sul calcio con l’esclusiva della Champions League, su quello relativo al digitale ha appena risolto la grana che da otto anni la opponeva a Google-You Tube, contro cui aveva intentato nel 2008 una causa per 800 milioni per avere caricato sulla controllata Youtube «65 mila video di produzione delle tv».

L’accordo – è siglato nella lettera di intese raggiunta – «apre nuove prospettive nei rapporti tra i due player». Parecchi soldi in arrivo. Non sarà quindi facile per Netflix inserirsi in un mercato così particolare come quello italiano. Certo l’offerta a prezzi popolari potrebbe essere una spinta per raggiungere di qui a breve 150 mila abbonati, così come annunciato da Hastings, ma la concorrenza sullo stesso campo di Sky Go e Infinity (Mediaset), e l’ipotesi dell’approdo italiano di altri provider come Amazon o Apple, renderà difficile domare la concorrenza e la specificità del sistema italiano.