Woody Allen, George Miller, Todd Haynes, Gus Van Sant, Pete Docter…Tutti abbiamo voglia di vedere i loro nuovi film (anche se alcuni usciranno in Italia nel giro di poche settimane). Come tutti siamo curiosi di vedere come funzionerà un presidente di giuria a due teste (quelle di Ethan e Joel Coen: è da molto prima di Fargo che Cannes li voleva in giuria. A forza di insistere ce l’hanno fatta); come sarà la prima regia di Natalie Portman e se Sicario, un film americano diretto dal canadese Denis Villeneuve, avrà nulla a che vedere con El Sicario –Room 164, il film di Gianfranco Rosi che pare molto amato dal protagonista del film di Villeneuve, Benicio Del Toro. Sulla carta, è tutta di serie A la selezione USA a Cannes di quest’anno – un mix di cinema da Studio di qualità (Mad Max: Fury Road e Inside Out), indipendenti storici (Allen, Van Sant e Haynes), esordi (Portman)….

Anche se un po’ istituzionale, poco imprevedibile, priva com’è di scoperte, scelte a rischio, controcampi – eccetto forse per Louisiana di Roberto Minervini (che però è il film di un regista italiano, finanziato da Francia e Italia) e per la deliziosa parabola hollywoodiana Harold and Lillian, seppellita nella sezione Classics. In conferenza stampa, Thierry Fremaux ha parlato di una selezione 2015 nuova e fresca, ma allora perché, dall’America, non includere per esempio due giovani autori come Sean Baker e Rich Alverston, i cui nuovi film hanno lasciato un segno molto forte al Sundance Film Festival di quest’anno? O perché non dare spazio alla metamorfosi seriale che ha investito il nuovo cinema statunitense (parzialmente rappresentata al Marché grazie a un’apparizione del fondatore di Netflix Ted Sarandos)? O al lavoro di ricerca sul mezzo che si sta facendo su siti come Vice? Insomma, il polso reale del contemporaneo cinema USA è più vario ed eccitante, e si potrà registrare solo in piccola parte sulla Croisette.

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Il fatto che grandi festival come questo, alimentati come sono dalla loro simbiosi con il circuito dei principali agenti di vendita, diventino sempre più un’esperienza rituale, la conferma di un’establishment, e sempre meno un’avventura, non toglie nulla all’emozione di vedere dei bei film. In testa a tutti, quest’anno, ci piace mettere Carol, ritorno (in concorso) di Todd Haynes al genere che più ha segnato la sua opera, il melodramma, con l’adattamento di The Price of Salt, un romanzo che, nel 1952, Patricia Highsmith (poco dopo la pubblicazione di Strangers on a Train) aveva firmato con lo pseudonimo Claire Morgan. Ha adattato questa love story lesbica, tra una commessa di grande magazzino (Rooney Mara) e una casalinga benestante del New Jersey (Cate Blanchett) che nel libro, include una lunga, bellissima, parte on the road, l’autrice teatrale Phyllis Nagy.

Alla fotografia, il grande Ed Lachman, che ha girato tutti gli ultimi lavori di Haynes e che, in Far From Heaven, aveva contribuito a ricreare la glaciale, crudele, dolcezza di Douglas Sirk. Il melodramma ha incrociato spesso anche la carriera di Gus Van Sant, l’altro autore americano in concorso, e Palma d’oro nel 2003 con Elephant. Nel 2011, Van Sant aveva portato a Cannes il suo Restless, love-fiaba di due teen agers accomunati dalla morte (lui ama i funerali lei è malata di cancro: che ha anticipato il revival del melo alla The Fault in the Stars).

Anche Sea of Trees si annuncia come una riflessione sul tema, veicolata dall’incontro tra Matthew McConaughey e Ken Watanabe nella giapponse foresta dei suicidi, alla base del Monte Fuji. Sempre in concorso, batte bandiera USA anche Sicario, che il franco-canadese Villeneuve (prossimamente regista del nuovo Blade Runner) descrive al Guardian come «n film molto cupo, una poesia dark, violenta», e «un film sull’America….sulla tensione tra idealismo e realismo. Che si svolge sul confine messicano ma potrebbe riguardare l’Afghanistan, il Medio Oriente o un paese dell’Africa». Film sull’America sono tutti –almeno fino a oggi – i lavori di Roberto Minervini, «promosso» dopo il fuori concorso di due anni fa, Stop The Pounding Heart, ma solo a Un Certain Regard. Gli States che l’autore marchigiano ha esplorato nell’arco dei suoi quattro film sono una terra «ai margini», non a caso, il sottotitolo del suo nuovo lavoro – girato in un Sud sfibrato dalla povertà e dalla metanfetamina e tra i miliziani del Texas, è The Others Side, l’altra parte.

Emozioni animate in 3D a cura della Pixar, che celebra la soglia del trentesimo anniversario con un film tutto ambientato nella testa di una bambina (in passato, Lasseter e i suoi boys erano stati criticati per trascurare troppo les girls), Inside Out, di Pete Docter (già a Cannes nel 2008, con Up). Alla sua esuberanza cromatica e tonale, sempre fuori concorso, si contrappongono l’aridissimo, desaturato, deserto postapocalittico di Mad Max: Fury Road (ce la farà Tom Hardy e eguagliare la follia autentica del Mad Max originale Mel Gibson?) e l’Immoral Man di Woody Allen, ovvero il professore di filosofia Joaquim Phoenix che trova risposta alla sua crisi esistenziale con l’aiuto della studentessa Emma Stone – premessa (ricorrente) che gioverà ad Allen la solita ira della stampa USA. L’esordio di Natalie Portman alla regia, A Tale of Love and Darkness, è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Amos Oz, di cui l’attrice di Black Swan e di Free Zone di Amos Gitai, di è anche coprotagonista, nel ruolo di Fania Oz. Arriva da SXSW il film americano alla Semaine de la Critique, Krisha, di Trey Edward Shults. Mentre sono tre i film USA alla Quinzaine: Green Room di Jeremy Saulnier (già presente due anni fa con Blue Ruin) e due titoli da Sundance: Songs My Brothers Taught Me, della cinese Chloe Zhao, ambientato in una riserva indiana e la drogatissima commedia Dope, di Rick Famuyiva.