La più ampia esplorazione delle vicende biografiche di Giuseppe Gioachino Belli fu compiuta da Guglielmo Ianni con i tre volumi intitolati Belli e la sua epoca, che videro la luce nel 1967 presso il medesimo editore (Cino Del Duca) e con la medesima veste grafica dal rosso intenso che avevano accolto nel 1961 i due volumi comprendenti Le lettere, curati da Giacinto Spagnoletti. Era stato Ianni, nipote del poeta, a collazionare come poteva gran parte del materiale per sostenere, documenti alla mano, la narrazione della vita del poeta (le lettere sono passate non si sa più in quante mani).
Siccome, come dice il proverbio, «chi fa falla» o, che è lo stesso, «chi non fa non falla» o ancora, secondo Belli, «chi ferra inchioda e chi cammina inciampica» (si veda La proverbìade romanesca di G. G. Belli di Roberto Vighi e Marcello Teodonio, al n. 245), l’edizione di Spagnoletti, pur benemerita, non si risparmiò gli strali né dei perfezionisti né di chi non ritiene che un lavoro pionieristico (e su un terreno così accidentato) possa avere la propria forza per il fatto che sia da superare, ma che intanto segni un passo avanti in un territorio pressoché deserto. Spagnoletti aveva messo insieme ciò che aveva potuto: se non avesse provveduto, staremmo ancora aspettando di leggere in un corpus sostanzialmente attendibile benché largamente incompleto quei documenti così essenziali. Non si dava pace per quell’edizione, per esempio, uno dei fondatori della critica belliana moderna, Carlo Muscetta, che sull’argomento imprecò per anni, non omettendo di introdurre nel 1962 il volume einaudiano curato da Giovanni Orioli e includente Lettere Giornali Zibaldone (non si saprebbe dire se ci fosse un rapporto di causa ed effetto tra le due cose).

A cura di Davide Pettinicchio
Nel corso del tempo, vari frammenti e riassestamenti si presentarono al pubblico. Ora, anche per le lettere, Belli si rinnova, e arriva il primo imponente volume (di pronosticati due) dell’Epistolario, che copre gli anni 1814-1837 (Quodlibet, pp. CII-1202, € 90,00): un’edizione rigorosa dal punto di vista filologico ed erudito, con incrementi che aspirano a una «(relativa) completezza», benché una parte di lettere non sia tuttora rintracciabile o accessibile. Il curatore, Davide Pettinicchio, nella molto opportuna Guida alla lettura, ricorda uno degli strali di Muscetta – dalle pagine nel volume curato da Orioli – che affacciava uno scrupolo che pure andava affacciato, ma non solo per Belli: si trattava di non rendere pubblica la testimonianza di una vita «appiattita al livello del comune e del mediocre»; con ciò si sarebbe compiuto un «esercizio di igiene sociale». Altro clima, altre tensioni, altre persuasioni. Ora, se è vero, come Pettinicchio osserva, che l’ideale eroico di Muscetta (e della sua epoca) confliggeva col comune e col mediocre, non meno rilevante era l’altro conflitto: quello fra un’esistenza comune e mediocre e una grande poesia: «Se la personalità pratica – scriveva ancora Muscetta –, sia pure di un grande scrittore, diviene oggetto di devozione superstiziosa, il nostro culto non può non avvilire insieme con noi anche questo “santo” che abbiamo avuto il bel merito di canonizzare». Ora: una cosa è non andare oltre l’indiscreto (e verso il morboso) nel leggere ciò che (forse, probabilmente) era scritto per uso privato, ma leggere un poeta come se la sua vita non esistesse era una pretesa curiosa. E infatti dice molto l’idea, in Muscetta, di «canonizzazione» idealizzante. Invece la potenza della poesia di Belli prende consistenza anche maggiore se vista edificata sulle basi di un’esistenza tanto comune e mediocre. Ed era giudizio da valere per tutti, o gli epistolari potevano pubblicarsi nel caso di esistenze eroiche? E furono eroici – oltre l’eroismo intellettuale, di eroi del pensiero – Manzoni e Leopardi, per stare a quel giro di anni?
Questo primo volume dell’epistolario arriva ai quarantasei anni del poeta (era nato nel 1791) che nel 1837 ha già composto millenovecentosessantadue dei suoi duemiladuecentosettantanove sonetti romaneschi: copre dunque un periodo altamente «eroico» (se è questo l’aggettivo) della sua avventura intellettuale. Venticinque ne comporrà l’anno successivo e solo sette tra 1839 e 1842. Riprenderà poi con produzione ampia ma intermittente nel ’43 per congedarsi dopo la produzione copiosa del ’47. Fino alla morte (1863) non ne scriverà più e avrà un rapporto conflittuale con quanto ha scritto in romanesco. Siamo dunque negli anni del suo laboratorio più vivace, quando l’officina è in piena attività.
La sostanziosa introduzione di Pettinicchio – una vera e propria rassegna dei temi dominanti in Belli negli anni indicati dal frontespizio – si conclude con un capitolo intitolato La crisi del ’37, l’anno in cui, in Palazzo Poli, in luglio, si spegne Maria Conti, la consorte del poeta: crolla un mondo e arrivano i creditori a sottrargli prontamente i beni materiali. A dicembre, in una lettera a Vincenza Roberti, dopo un esordio di osservazioni su piccole azioni umane, un aforisma degno di un moralista (deve presentare una lettera di raccomandazione e ritiene «gioverebbe meglio il presentarla privatamente, tanto più che in questo caso riuscirebbe vano a chi la ricevesse il dissimulare di averla ricevuta, siccome spesso accade allorché si voglia bellamente scansarsi dall’accogliere con favore una dimanda»), aggiungerà: «Non vi dissimulo purtuttavia la mia poca speranza di riuscire in simile impegno, stante anche il difetto in me di rapporti e di pratiche molte, necessarie in simili faccende, giacché la mia vita sempre ritirata ed aliena dal mostrarmi nel mondo e mescermi fra gli uomini mi ha reso come straniero ai miei concittadini e ignoto a’ miei contemporanei. Ma chi avrebbe saputo prevedere che un giorno avrei avuto bisogno del comune modo di vivere?». Certo, si tratta di agi e lussi congedati, ma fa specie vedere cadere qui, nell’ora del disagio, l’aggettivo «comune», proprio lo stesso usato da Muscetta.
Vincenza Roberti, la corrispondente, era Cencia; il luogo di destinazione Morrovalle: la scena di quelli che Giorgio Vigolo aveva definito I sonetti procacissimi di Morrovalle del 1831, quando Belli si era scatenato in alcuni dei suoi componimenti più audaci (un primo tuffo in «quel mondo primordiale» del quale si tocca il «barbarico e fantastico fondo»: Vigolo), sempre in bilico tra uno sfrenato carnevale e l’osservazione dal punto di vista di una quaresima atrabiliare. Dunque parrebbe centrale un altro capitolo dell’introduzione, dedicato alla malinconia di Belli, un aspetto talvolta considerato ma da porre in evidenza sempre maggiore, perché lì è «il filo occulto della macchina».

Tra ipocondria e malinconica serenità
Il passaggio della lettera a Cencia in cui Belli si dice «straniero ai miei concittadini e ignoto a’ miei contemporanei», indicante una ritrosia verso il mondo, una voglia di sottrarsi al suo vocio, proprio mentre lo osservava con un misto di acutezza e di avversione, è un motivo ricorrente nelle lettere: un modo per designare un’esistenza che si fa ogni giorno più difficile da sopportare, e ogni giorno aggiunge peso a peso: «il linguaggio dell’esperienza interiore è informato da una consapevolezza progressivamente più granitica e amara», nota il curatore. Già in una lettera del 1824 a Giuseppe Nerone Cancelli, Belli, uscendo da una crisi di umor nero, scriveva: «siccome dalla morbosa alterazione del mio naturale carattere io fui tratto allora in ipocondria nerissima, e nello abborrimento di ogni sociale consuetudine; il ristauramento di esso nel propio suo mezzo alla più antica mia malinconica serenità, ed al mio moderato amore pel ritiro novellamente mi richiamò». Dunque il temperamento di Belli oscilla tra «ipocondria nerissima» e «malinconica serenità», e in questa oscillazione sta la capacità di sguardo di colui che compone i sonetti: la malinconia, si sa, ingigantisce un dettaglio, strazia certi lineamenti, evidenzia ciò che di consueto rimarrebbe nascosto, procura curiose distanze, morbose curiosità, improvvisi disgusti. Il repertorio dei «distinti quadretti» prende continuità da questo «filo occulto»: ed è dunque anche il resoconto di una ciclotimia per interposte figure. Tali personaggi, stretti da fame e bisogni di ogni tipo, non sentono melanconicamente, non hanno modo di lasciarsi avvolgere dall’umor nero. A questo pensa il genio che ha deciso di erigere loro un monumento, nei suoi momenti di malinconica serenità.