Quello che accadrà in Italia, dove la procura di Milano ha notificato alle aziende che fanno consegne a domicilio di assumere 60 mila rider (e pagare una multa da 733 milioni di euro) è già accaduto l’altro ieri in Inghilterra con Uber. L’azienda che gestisce un’applicazione di servizio-vettura-più-autista (ride-hailing) è stata costretta ad assumere 70 mila autisti dopo una sentenza definitiva della Corte suprema britannica. Sono i magistrati ad avere imposto da subito il riconoscimento dello status di dipendenti che, pur mantenendo il diritto di scegliere quando lavorare, riceveranno il salario orario minimo, il pagamento delle ferie, le tutele per la sicurezza e i contributi per l’attività svolta.

La sentenza è l’esito di un ricorso presentato nel 2016 a un tribunale del lavoro da James Farrar e Yaseen Aslam, due autisti Uber. Quel ricorso è stato accompagnato da una vasta mobilitazione internazionale, anche negli Stati Uniti, da parte dei lavoratori auto-organizzati e sostenuti dai sindacati. L’assunzione, valida a partire da ieri, è un atto che smentisce quanto sostenuto precedentemente dall’azienda secondo la quale la sentenza della Corte sarebbe stata applicata solo agli autisti coinvolti nel caso. La forza del pronunciamento dei giudici è stata tuttavia tale da spingerla a cambiare versione. Ieri Uber è stata sanzionata dalle borse: ha perso oltre il 4% del suo valore a Wall Street. È svanito l’incantesimo venduto per anni. Non è più tollerato il mascheramento del lavoro parasubordinato in lavoro autonomo fasullo.

Quanto accade in Gran Bretagna avrà un impatto in molti paesi. Esiste una cultura diffusa, ad ogni livello, nelle corti europee e americane tale da rendere questo scenario più che probabile. L’intelligenza delle lotte si esprime altrimenti, ma rischia di essere penalizzata dai governi, subalterni, come quelli italiani degli ultimi anni, ai Leviatani della rete.