Il collasso del colosso Carillion – megalo-azienda con i tentacoli in pasta nell’edilizia come in una molteplicità di servizi, fallita lunedì – oltre a ricadere in modo nefasto sulla gestione delle prigioni, scuole e alloggi che lo stato britannico, ricoprendola di miliardi, gli aveva appaltato, sta già avendo ferali conseguenze sulla sanità (sempre meno) pubblica del Paese.

All’annuale winter crisis, congestione invernale di un servizio sanitario pubblico già gravato dall’esodo del personale paramedico di nazionalità europea causa Brexit (ogni anno un’infermiera su dieci lascia il settore inglese dell’assistenza), la liquidazione coatta di Carillion aggiunge il rischio che 14 ospedali a gestione mista pubblico-privata non siano in grado di continuare a funzionare. Per tacere dei due nuovi nosocomi che l’azienda stava costruendo.

Nel settimo anno di un regime di austerity a targa conservatrice, che nel nome di un pareggio fantafinanziario di bilancio inocula nel corpo sociale il veleno della privatizzazione attraverso tagli inflitti agli strati più vulnerabili, l’odio di classe mai davvero elaborato dei tories per i poveri-scrocconi del welfare – opportunamente gabellato per politica anti-sprechi nel nome della «meritocrazia» -, continua indisturbato.

Ma il punto di rottura si avvicina. Quest’inverno la tenuta del sistema sanitario nazionale sta raggiungendo la pressione più elevata dell’ultimo decennio e le statistiche sul rendimento e la performance della macchina sanitaria nazionale sono le peggiori di sempre. La scorsa settimana, una lettera di 68 primari di pronto soccorso indirizzata direttamente alla premier metteva in guardia sulla sicurezza dei pazienti: ogni giorno 120 di loro ricevono le proprie cure nelle sale d’aspetto e nei corridoi per mancanza di letti. All’inizio di gennaio i vertici della Sanità avevano esortato gli ospedali a posticipare gli interventi chirurgici meno urgenti, nel tentativo – poi fallito – di evitare la cancellazione dei 55mila previsti quest’inverno. Per queste deficienze e ritardi, alcuni malati muoiono prematuramente, aggiunge il documento, lamentando la causa nei tagli che cronicizzano problemi non poco aggravati dall’allungamento della vita media. Un’altra missiva da parte dei rappresentanti degli ospedali ammonisce che il servizio sanitario è a un «punto di svolta» e non riesce più a soddisfare i requisiti minimi definiti dal proprio statuto, raccomandando a sua volta un maggior sostegno finanziario statale.

Theresa May ha cercato di cavarsela scusandosi e difendendo l’operato del governo. Le 55mila operazioni cancellate erano «parte del piano invernale per la Sanitá», ha detto la premier, aggiungendo di aver stanziato 437 milioni di sterline in più per affrontarla. «Siamo più pronti che mai ad affrontare la crisi invernale» e un qualunquistico «nulla è perfetto» hanno poi concluso l’autodifesa della leader. L’inetto ministro della Sanità Jeremy Hunt resta naturalmente al suo posto, tanto è precario il gabinetto della leader per la questione della British Exit.

La pratica di appaltare sempre di più ai privati è stata stigmatizzata da Jeremy Corbyn. Il governo «inietta il denaro destinato alla Sanità nel settore privato», ha accusato il leader laburista. «Gli sgravi fiscali agli ultraricchi e al grande business sono pagati con l’allungamento delle liste d’attesa, carenza di personale e tagli allo stato sociale», ha accusato Corbyn.

 

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Il National Health Service è l’unico sopravvissuto della serie di garanzie sociali che lo Stato si impegnava a dare ai suoi cittadini all’indomani della guerra più sanguinosa della storia. Primo servizio sanitario gratuito «dalla culla alla tomba» in Europa, è stato il segno tangibile dell’avvento al potere del partito laburista dopo la fine della guerra – che lo inaugurò – e occupa un posto fondamentale nell’immaginario nazionale, come confermato dalla cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Londra nel 2012 diretta dal regista Danny Boyle, con le sue coreografie a base di giulive infermiere e letti d’ospedale.