All’ottavo round di negoziati Ue-Gran Bretagna, concluso ieri, per trovare un accordo per la Brexit è stato toccato il fondo e ormai il rischio di un no deal si fa sempre più concreto.

Dopo una riunione di emergenza, ieri a Londra, tra il ministro Michael Gove e il vice-presidente della Commissione, Maros Sefcovic, che non ha sbloccato la situazione, in stallo dopo gli incontri tra i due negoziatori, Michel Barnier e David Frost, la Ue è partita al contrattacco. Con un duro comunicato, ha ingiunto a Londra di «precisare» e di «ritirare», al massimo «entro fine mese», il progetto di legge sul mercato interno, rivelato mercoledì, che per la Ue rappresenta una «violazione grave» di un trattato internazionale firmato da Londra.

La Ue minaccia un’azione legale contro la Gran Bretagna, attraverso la Corte di Giustizia europea (un paradosso, il rispetto della Corte è uno dei punti che più irritano a Londra), che può portare a sanzioni finanziarie e commerciali, sulla base della «violazione degli obblighi di buona fede» (art.5 del Withdrawal Agreement), se non viene ritirato l’Internal Market Bill. È un “bombardamento a tappeto” dell’accordo già raggiunto con la Ue: la Gran Bretagna intende modificare bilateralmente il Withdrawal Agreement e il Protocollo sull’Irlanda del Nord.

LONDRA CONTESTA la “frontiera” che il Protocollo stabilisce nelle acque tra Inghilterra e Irlanda del Nord, accordo raggiunto per evitare una frontiera all’interno dell’isola irlandese, condizione della pace dal 1998. In nome del take back control e della priorità del parlamento nazionale, Londra vuole definire unilateralmente quali merci che viaggiano dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord sono “a rischio” di finire nella Repubblica irlandese e quindi devono essere soggette a tariffe. Nel Protocollo la definizione delle merci “a rischio” era attribuita al Joint Committee, con rappresentanti di Gran Bretagna e Ue. Inoltre, il governo Johnson vuole in modo unilaterale togliere l’obbligo di dichiarazione all’export per merci che transitano dall’Irlanda del Nord alle proprie coste. Per la Ue, si tratta della porta aperta al dumping, un cavallo di Troia che può fare entrare nel mercato unico merci senza controllo (che non rispettano le norme sanitarie, ambientali, sociali). Il sottosegretario all’Irlanda del Nord, Brandon Lewin, ha ammesso che il governo britannico è ben cosciente di infrangere una legge internazionale, ma «in modo molto specifico e limitato».

LA PRESIDENTE della Commissione, Ursula von der Leyen, ha sottolineato che il non rispetto dell’accordo «violerebbe il diritto internazionale e distruggerebbe la fiducia» con la Ue. Nei fatti, Bruxelles ha il tempo contato per mettere in atto un’effettiva azione legale prima della Brexit, prevista il 31 dicembre 2020 (ma nell’accordo, azioni legali sono possibili per i prossimi 5 anni dopo la Brexit). «Continueremo il negoziato per non cadere nella trappola di Johnson» dicono a Bruxelles, «ma non siamo ciechi, questa settimana abbiamo toccato il fondo, entro due settimane vedremo se è stato il punto di svolta verso il no deal». Il ministro del Commercio francese, Frank Riester, già avverte: «Bisogna prepararsi alle conseguenze del no deal». Il primo ministro irlandese, Micheál Martin, ormai ha «giustificati dubbi» sulla volontà di Johnson di concludere il negoziato, «il governo irlandese è gravemente preoccupato per l’intenzione deliberata della Gran Bretagna di rompere il contratto». Sono persino intervenuti gli Usa, che hanno espresso preoccupazione per il Good Friday Agreement del 1998, di cui sono garanti, e chiesto alla Gran Bretagna di rispettare il Protocollo sull’Irlanda del Nord firmato con la Ue nel 2019.

BORIS JOHNSON gioca il tutto per tutto? Sostiene che se non c’è accordo entro il 15 ottobre, bisogna «accettare e andare oltre». Il suo interesse principale di è «garantire fluidità e sicurezza al mercato interno» britannico, «nessuno vuole barriere nel Mare d’Irlanda», garantendo una «rete di salvataggio che tolga ogni ambiguità». Per Londra è un gioco d’azzardo, perché ha più da perdere con un no deal (47% del commercio estero della Gran Bretagna è con la Ue, viceversa è l’8%) e perché mette in crisi la “firma” internazionale del paese.