Riunire in un libro dei saggi indipendenti (cinque, pubblicati tra il 2008 e il 2016) è operazione esposta al rischio di risultare in una composizione posticcia. Non pare che sia il caso di questo libro di Antonio Di Meo, Decifrare Gramsci. Una lettura filologica, (Bordeaux, pp. 256, euro 20). Gli stessi temi, infatti, affrontati da prospettive diverse ma convergenti, percorrono l’intero volume. Essi vengono riassunti da Di Meo in una battuta, quando osserva che Gramsci si pone il problema di far emergere un modello complesso di «personalità», originale ma pur sempre in relazione con i saperi psicologico e sociologico del suo tempo. In questo modo il marxismo, riformulato come filosofia della praxis, sarebbe stato in grado di essere un pensiero autonomo, ponendosi a suo modo la domanda relativa a «cosa fosse l’uomo» e confrontandosi con le «nuove idee scientifiche e filosofiche soprattutto per le estrapolazioni ideologiche che ne derivavano».

NEI VARI CAPITOLI questa trama risulta sempre ben visibile. Particolarmente nell’ultimo, che mette a tema la questione del sapere scientifico; o nel secondo e quarto, che considerano direttamente il complesso di problemi che si raccolgono attorno allo statuto della «personalità». Ma essa, sia pure in modo meno immediato, si lascia percepire anche nel primo, sulla genealogia del concetto di egemonia, o nel terzo, su quella della «rivoluzione passiva», come processi di condizionamento che, in qualche maniera, entrano in gioco nell’arginare, modellare, disciplinare gli individui, organizzandone attivamente il modo di pensare (l’egemonia) o limitandone dall’esterno l’iniziativa (la rivoluzione passiva).

IN DEFINITIVA, l’oggetto unitario del libro è l’intreccio tra i «saperi» e la «vita», come polarità di un «gioco» che si delinea col sorgere delle società di massa – nella seconda metà dell’800 – e si scatena con virulenza nella prima metà del secolo successivo. Saperi, cioè le scienze della società in senso largo: psicologia (di massa) e sociologia anzitutto; e vita, cioè «opinione pubblica», mentalità, credenze e fedi, miti, ideologie; insomma tutto ciò che funziona da collante e insieme motore dell’azione e del comportamento collettivi.

Il metodo seguito da Di Meo nelle sue indagini è quello della storia delle idee (non direi, dunque, «filologico», come affermato dal sottotitolo), per cui i Quaderni del carcere vengono sbalzati su uno sfondo che risale indietro all’800 e inquadrati in una cornice contemporanea altrettanto ricca e variegata.

IN QUESTO MODO, tutta una serie di nozioni-chiave di Gramsci – egemonia, rivoluzione passiva, catarsi, linguaggi, scienza, «molecolare» – smettono di essere lette entro un vuoto pneumatico, come se la loro «storia» iniziasse coi Quaderni, e sono immerse in genealogie ricche e spesso insospettate, e che soprattutto rendono possibile un ritorno a esse con occhi nuovi. Questo effetto non è sempre eguale. A volte si ha l’impressione di una certa esteriorità (la storia delle idee è sempre esposta a tali rischi). A volte invece l’operazione riesce pienamente, come nel caso della nozione di «molecolare».

A lungo ignorato o malinteso, il lemma «molecolare» svolge una funzione trasversale nel lessico/pensiero di Gramsci in carcere. Esso si predica dei mutamenti della personalità, dei passaggi d’epoca, delle percezioni e della conoscenza; indica un processo che avviene in modo inconsapevole e insieme ineluttabile; l’emergere di una nuova «forma» come risultato di un numero incalcolabile di micro-trasformazioni latenti. Di Meo lo riconduce agli studi sullo sdoppiamento della personalità, alla concezione dell’io come «colonia» instabile di una molteplicità di aggregati, che all’incrocio tra psicologia, biologia e scienze dello spirito si delinea soprattutto in Francia negli ultimi decenni dell’800.

PER QUESTI APPROCCI, il «soggetto» è una formazione precaria e transitoria; spesso è una «maschera» (Di Meo chiama in gioco anche Pirandello, autore presentissimo a Gramsci); sempre è un «effetto», un «nome» assegnato a qualcosa che lo trascende verso il basso e verso l’esterno. Insomma, se qualcosa queste pagine dimostrano, è quanto sia fuor di luogo la rappresentazione – tanto diffusa – di Gramsci come «teorico della soggettività» (che è ben altra cosa dalla personalità).