La prima volta che ebbi a che fare col Venezuela fu nel 1980: ai margini di una visita al Nicaragua appena salvato dalla rivoluzione sandinista andai a Caracas perchè lì c’era stata una scissione dal vecchio partito comunista che si ostinava a perseverare in una guerriglia politicamente ormai perdente e che voleva liberarsi dall’acritica sudditanza a Mosca. Si trattava del MAS di Pompeo Marquez e di altri compagni che avevano cercato Il Manifesto per via di qualche analogia non secondaria. Purtroppo il gruppo, che pure ebbe meriti non indifferenti, finì male, per via della sua partecipazione al corrottissimo governo di André Perez, finito in un bagno di sangue quando represse una grande ribellione popolare indotta dalla liberalizzazione del prezzo del pane.
Tornai in Venezuela molto tempo dopo, per partecipare ad una prima Conferenza internazionale che il governo bolivariano aveva convocato. Capii molte cose che spesso dall’Europa non si vedono, e quindi il grande valore del tentativo di Chavez, questo anomalo militare cresciuto in Amazonia, naturalmente indio. Gran parte della sinistra europea fu diffidente perchè il nuovo leader non corrispondeva ai propri canoni e prestò perciò ascolto alle rancorose critiche dei nostri vecchi amici intellettuali del MAS. Fra questi i DS italiani.

In seguito mi è anche capitato di stabilire un amichevole rapporto direttamente con Chavez. Fu quando lui venne in Italia per la prima volta per via di una riunione della FAO. Ero in ospedale, agli ultimi giorni di una degenza postoperatoria, quando mi telefonò Bernard Cassem, vicedirettore de Le Monde Diplomatique, molto legato al leader venezuelano. Mi riferiva che Chavez voleva profittare della sua visita a Roma per incontrare esponenti della sinistra italiana, non solo amichevoli ma anche quelli diffidenti, per spiegare quanto stava facendo. E che però, essendo la rappresentanza diplomatica del paese ancora quella legata al vecchio regime non aveva nessuno a chi rivolgersi per promuovere questo delicato incontro. Per questo mi intimava di interrompere la degenza e organizzare un pranzo-riunione a casa mia.

Dubitavo francamente che durante una visita ufficiale alla Fao il capo del governo venezuelano avrebbe potuto sfuggire ai programmi protocollari per venire a colazione da me, e infatti avevo ragione: alla fine non ci riuscì. Ma da me, il tutto organizzato dal suo allora stretto collaboratore Maximilian Arvelaiz, arrivò, per incontrarsi con un selezionatissimo gruppo italiano, la più autorevole rappresentanza del bolivarismo: il ministro del petrolio, il presidente dell’Parlamento, ecc. Da allora, ogni volta che ho reincontrato Chavez a Caracas, o a Porto Alegre in occasione dei Forum Sociali Mondiali, mi abbracciava e diceva: “ho mancato le tagliatelle di Luciana, che i miei amici mi hanno detto buonissime. Ma di sicuro tornerò per mangiarle”.

Vi ho raccontato questa lunga storia ben sapendo che non vi dice molto sull’attualità del Venezuela, ma per farvi capire con quanta struggente emozione e preoccupazione io stia seguendo, come del resto, ne sono certa, molti altri compagni, quanto sta accadendo in questi giorni nel paese.

Sulla sostanza della rivoluzione bolivariana non voglio né posso dire qui niente che già non sappiate, o che non abbia già scritto nel corso di questi anni sul manifesto. Voglio solo ricordare un documentario della BBC che più di ogni altra cosa mi ha fatto capire: è quello sulla reazione, immediata e spontanea, straripante di popolo diseredato (la grande maggioranza dei venezuelani) che si riversò per le strade di Caracas quando, nel 2002, il vecchio establishment appoggiato da Washington, tentò il colpo di stato controrivoluzionario, arrestando Chavez. Le immagini di quella pellicola spiegano meglio di ogni altro documento il senso della rivoluzione bolivariana: da un lato vescovi, ambasciatori occidentali,sindacalisti corrotti, imprenditori, banchieri, ricche signore col cappellino che brindano sicuri di aver vinto. Dall’altra il popolo furibondo. Immagini che ricordano il grande affresco di Diego de Rivera nel palazzo del governo di Città del Messico. È un pezzo di storia che non può essere cancellato.

Non ho sufficiente conoscenza di quanto è accaduto dopo la tristissima morte di Chavez. Le informazioni, lo sappiamo, sono per lo più in mano di chi ha il potere nel mondo, i nostri stessi nemici. Mi fido però delle riflessioni di un nostro grande amico, strettissimo amico anche di Chavez: François Houtart, scomparso pochi mesi fa. Era appena stato in Venezuela e aveva scritto di quanto vi accadeva in un sofferto e critico reportage che questo giornale ha pubblicato. Rileggetelo, se conservate il giornale (è dell’8 giugno scorso). Pur schierandosi con il bolivarismo, Houtart prendeva atto di quanto non aveva funzionato, in particolare nella politica economica, tutta troppo dipendente dagli improbabili introiti del petrolio, generosamente redistributiva della ricchezza, come è giusto, ma non abbastanza accorta nel produrre la ricchezza necessaria. E delle carenze democratiche che via via si erano create. È un fatto che quella straordinaria mobilitazione popolare che in passato aveva sempre sostenuto il governo bolivariano oggi si è drammaticamente ridotta.

Errori? Corruzione? Debolezza programmatica? Abbiamo imparato dolorosamente dalla storia che nessuna rivoluzione resta vincente e fedele alle sue intenzioni: da quella francese a quella sovietica. Il peggio che si possa fare è però chiudere gli occhi e non impegnarsi nella riflessione critica, necessaria proprio perché ci riguarda; il che non vuol dire cambiare di fronte, scegliere la orribile destra venezuelana che – ricordo anche questo – coprì i muri di Caracas molti anni fa di scritte che denunciavano come assoldato dal regime l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter che, quale membro della commissione internazionale incaricata di validare il voto espresso non ricordo più in quale tornata elettorale, si era permesso di dire che tutto risultava regolare.

Vorrei suggerire una ulteriore riflessione che forse serve anche a noi qui in Europa dove con fastidiosa insistenza si invoca un populismo di sinistra. Certo che il popolo deve essere protagonista della rivoluzione come di ogni possibile alternativa. Ma l’immediatezza non basta, rende fluttuanti e alla fine disarmati. Serve anche creare cultura, organizzazione, costruzione di canali di partecipazione che consentano di assumere responsabilità di lungo periodo, strategia. Un tempo questo impegno lo chiamavamo costruzione di un partito. Le esperienze negative che abbiamo sofferto rendono oggi difficile ricorrere a questa indicazione senza precisazioni. Ma c’è partito e partito: io credo che l’idea gramsciana di partito sia ancora strumento valido, e indispensabile se si vuole che persino una grande rivoluzione come quella bolivariana regga alle difficoltà del tempo e a tutte le insidie. Perché l’obiettivo è vincere la transizione ad una società superiore non la guerra civile imposta dal nemico.