Incredulità, sgomento dolore: sensazioni unanimi registrate nel mondo musicale alla notizia della morte del regista britannico Graham Vick, rimbalzata nel pomeriggio di sabato sui media di tutto il mondo. La scomparsa di Vick, stroncato a Londra dal Covid 19, ha avuto un’eco profonda in primo luogo in Italia, tra i paesi dove con più continuità si è sviluppata per oltre un trentennio la sua attività artistica, peraltro con la dolorosa coincidenza delle recite in corso a Bologna della Bohème di Puccini, nella toccante, scabra regia che Vick aveva appena ripreso dal fortunato spettacolo del 2018.

Come regista lirico Vick si distingueva per un tratto originale, che nei suoi spettacoli lo spingeva sempre a far emergere un’irriducibile tensione drammatica in consonanza con le problematiche della società contemporanea, sostenuto da competenze e capacità tecniche di vero regista, non di estroso scenografo o d’intellettuale prestato al palcoscenico. Nato a Birkenhead nel 1953, Vick aveva studiato al Royal Northern College of Music e si era formato nelle istituzioni teatrali britanniche, prima alla Scottish Opera, dove aveva esordito giovanissimo con Savitri di Holst e poi nell’approdo al Festival di Glyndebourne, dove firma spettacoli essenziali e coraggiosi, anche ricchi di fascino visivo, dalla Piccola Volpe Astuta di Janáček ai due Chajkovskij, Evgenij Onegin e Dama di Picche fino a Ermione di Rossini e Lulu di Berg.

A Londra aveva collaborato con successo con l’English National Opera, per Butterfly e Fidelio e soprattutto con il Covent Garden dove con Un re in ascolto di Berio, Mitridate di Mozart, King Arthur di Purcell e Tamerlano di Handel aveva lasciato un’impronta rilevante, proiettando la sua carriera internazionale verso Berlino, Parigi e Salisburgo.

Dal 1987 il perno della sua creatività artistica è stata soprattutto la Birmingham Opera Company da lui fondata, centro culturale che sperimentava progetti di teatro condiviso, quasi sempre in lingua inglese, coinvolgendo un pubblico eterogeneo nelle messe in scena di Idomeneo, Otello e La traviata di Verdi fino alla recente Lady Macbeth di Mzensk di Šostakovič, titolo allestito anche al Metropolitan di New York, secondo una modalità di rielaborazione costante dell’impianto formale degli spettacoli. A inizio anni Ottanta l’amore per l’Italia nasce con l’avventura del chiostro toscano di Batignano, grazie a una Zaide di Mozart rivisitata all’Opera di Roma nell’ottobre 2020, durante una labile tregua concessa dalla pandemia.

L’aspetto corrosivo e radicale degli spettacoli si era accentuato anche nelle esperienze italiane: punto di svolta le geometrie e i colori acidi del Macbeth di Verdi nel 1997 alla Scala, cui sono seguiti Otello e poi Die tote Stadt di Korngold. Ancora una brumosa Lucia donizettiana per il Maggio Fiorentino, la Poppea monteverdiana a Bologna, mentre fortissimo fu l’impatto degli spettacoli rossiniani al ROF di Pesaro, Semiramide, il Moïse et Pharaon dal taglio politico, raddoppiato nel Guglielmo Tell feroce e «rosso».

Negli spettacoli più riusciti la sintesi fra invenzione registica e l’adesione alle urgenze del presente vivificava il ritmo teatrale in accordo con la musica. A Roma, più che nella trilogia Mozart/Da Ponte centrò il segno con una disturbante Mahagonny di Weill, mentre a Palermo con l’Anello del Nibelungo di Wagner ha saputo traslare il mito in commovente meditazione sui temi dell’esistenza umana, ulteriormente trascesi poi con l’ultimo Parsifal. Vick amava battagliare per mettere a nudo nell’opera le domande più scomode del nostro presente, come nello Stiffelio di Verdi montato sui carrelli al Teatro Farnese di Parma nel 2017, vittoria epica  della compassione, del rispetto delle diversità e delle proprie finitezze contro la furia vociferante del fanatismo bigotto. L’eredità di Sir Graham Vick merita di essere raccolta e custodita.