Morire di classe di Franco Basaglia e Franca Ongaro, pubblicato nel 1969 con le foto shock in bianco e nero di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin fu un colpo al cuore e allo stomaco di molti perché finalmente rendeva chiare le condizioni disumane in cui vivevano i malati di mente nei manicomi italiani.

Molta acqua è passata sotto i ponti dai tempi della chiusura dei manicomi ma se citiamo quel libro lontano non è solo per ricordare il turbamento che procurò allora quella storia corale ma perché un’altra emozione, di segno «intimo» e dirompente, scaturisce adesso da un lavoro di Paolo Miorandi (con foto di Francesco Pernigo): l’elegante volumetto Nannetti. La polvere delle parole, pubblicato da Exòrma (pp. 168, euro 16).

Ed è proprio Miorandi, psicoterapeuta e scrittore di vari volumi, tra cui uno su Robert Walser, a introdurci nella storia: «Ho cominciato a immaginare Nannetti nel 2006 dopo aver visitato in più di un’occasione i padiglioni dismessi dell’ex manicomio di Volterra e aver trascorso molte ore davanti al grande libro che Oreste Fernando Nannetti aveva inciso sul muro del reparto dove quasi cinquant’anni prima era stato internato. Seppur in gran parte ancora visibile, già allora il graffito cominciava a sgretolarsi e cadere».

MIORANDI VI RITORNA quindici anni dopo assieme al fotografo Francesco Pernigo per riprendere quella esistenza intrigante e tragica di un uomo, rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Volterra dal 1959 al 1973, che comincia a scrivere, con la fibbia della divisa da internato, sui muri del manicomio 180 metri di storie (ne restano pochi dopo la chiusura e il decadimento della struttura) che l’infermiere Aldo Trafeli trascriverà con una encomiabile pazienza, salvandone la memoria. A differenza dei pubblici poteri che invece lasciano nell’abbandono e nella distruzione un lavoro che avrebbe richiesto accudimento e partecipazione piena, per una memoria da condividere.

SCRIVE INFATTI Miorandi nel suo appassionante percorso linguistico: «Il muro di Nannetti ha bisogno delle mani per essere letto, come se solo abbassando per un momento le palpebre il cuore potesse percepire la profondità delle cicatrici lasciate sul muro». E il valore del libro non è solo nell’empatia dell’approccio dell’autore con il protagonista (anzi i protagonisti, se si considera l’intreccio fondamentale con l’infermiere Trafeli) e nella costruzione di un linguaggio letterariamente alto che penetra nel dolore dell’universo del manicomio e nella demolizione dell’umano che lì vi avviene.

Ma è soprattutto nel rendere il mistero dell’espressione artistica di un uomo brutalizzato che nonostante tutto vuole vivere e testimoniare della sua presenza nel mondo. E conclude così l’autore: «Il muro del padiglione Ferri è per Nannetti ciò che sopravvive di un altro tempo e un’altra vita, talvolta vissuta soltanto per sentito dire, dell’odore infantile di una carezza, del corpo di una donna osservato da lontano, così come si osserva una barca che veleggia al largo».