Dopo il romanzo «metafisico» La riva delle Sirti, riproposto nel 2017 nella storica versione di Mario Bonfantini allestita nel 1952 per la mondadoriana «Medusa», L’Orma Editore licenzia un inedito di Julien Gracq (al secolo Louis Poirier, 1910-2007), di cui era stato offerto finora solo un estratto dalla rivista «In forma di parole» (n. 1, gennaio-marzo 1990). Acque strette (pp. 80, € 13,00), tradotto in maniera brillante da Lorenzo Flabbi, è una sorta di poema in prosa che prende spunto da un’escursione in barca sull’Èvre, piccolo fiume che si getta nella Loira, per divagare intorno a una serie di tematiche care a quello che è considerato l’ultimo dei classici. Personaggio schivo e appartato, autore di un feroce e attualissimo pamphlet contro il mondo intellettuale intitolato La Littérature à l’estomac (1950), nemico dichiarato di Sartre e dell’esistenzialismo, Gracq ebbe in vita il privilegio di essere accolto nella Bibliothèque de la Pléiade che ospitò in due volumi le sue Œuvres complètes.
Composto tra marzo e aprile del 1973 e stampato nel ’76 da José Corti, editore che pubblicò tutti i libri di Gracq, Acque strette è un autentico gioiellino che si configura come un pretesto per riflettere proficuamente sulle ragioni che sottendono alla creazione letteraria. Lo stile di Gracq, preciso e sorvegliatissimo, risente dei suoi studi di geografo: un genius loci rintracciabile nei titoli stessi dei suoi libri, da Un balcon en forêt (1958) a La Presq’île (1970) a La forme d’une ville (1985) per approdare al resoconto romano di Autour des sept collines (1988). Il motivo del paesaggio acquisisce valenza gnoseologica, arrivando a far scrivere all’autore in Lettrines: «Non dimentico mai un paesaggio che ho attraversato». Le impressioni sulla natura e sul paesaggio con le infinite variabili legate all’aspetto cangiante dell’acqua si pongono come Leitmotiv del libro che, non a caso, si affida a una rêverie di matrice quasi ottocentesca, alimentata da reminiscenze letterarie di prim’ordine, opportunamente evidenziate nella mappatura presentata in calce al volumetto.
Su tutte si staglia nitida la figura di Edgar Allan Poe, anche se le suggestioni di Gracq antepongono alla dimensione «gotica» dello scrittore americano i racconti più aerei e rarefatti come L’isola della fata o Le terre di Arnheim; non mancano tuttavia riferimenti ad alcuni tra i «grotteschi ed arabeschi» più conosciuti, con descrizioni paesaggistiche che danno l’abbrivio a singolari spunti mitopoietici, creando un andamento sinuoso, quasi ipnotico, che sembra trascinare il lettore, come nel Manoscritto trovato in una bottiglia, nell’atroce gorgo di un Maelström: «L’acqua nera, l’acqua pesante, l’acqua mangiatrice d’ombre descritta da Gaston Bachelard, quella che cinge l’Isola della Fata, quella che sul fondale dei fossati attende di richiudersi sulle macerie di Casa Usher – così diversa dall’insidiosa violenza del flutto che raspa, rastrella i greti della Loira e, afferrandolo come un cane nei giochi, ribalta il nuotatore annaspante in cerca della riva – era là, là per me, subito, con il suo odore terroso di melma e radici, il suo sonno solvente: digerente, lento infuso di foglie morte che piovevano dagli alberi d’autunno».
Sono molteplici gli influssi letterari presenti nel libro: l’Alain-Fournier del Grand Meaulnes, de Quincey, Bachelard, Nerval, il Ciclo della Tavola Rotonda, Verne, Balzac, Rimbaud, Proust, Valéry. Non mancano attinenze musicali (Lohengrin e Il crepuscolo degli dèi di Wagner) o pittoriche (Vermeer, van Ruisdael, la Madonna del coniglio di Tiziano). Il tragitto «fantastico» compiuto da Gracq si articola intorno ad alcuni topoi essenziali: la Cappella delle Paludi, il Battello lavatoio, il Castello della Guérinière, la Roccia che beve, il Mulino di Coulènes. Concepita alla stregua di un viaggio iniziatico o una seduta di regressione nelle terre favolose dell’infanzia, la narrazione di Gracq, priva di intenti affabulatori, non si cadenza intorno ad accadimenti rilevanti, procedendo a scatti, sulla scorta di una sequela asimmetrica di epifanie, memore di un esclusivo retaggio medianico, con punte acuminate di «immagini dispiegate in forma enigmatica». Poesia che non abbisogna di versi, affidandosi all’ausilio di parole scampate all’inabissamento nelle acque di un fiumiciattolo di provincia dove «gli accidenti dell’ombra e della luce si distribuiscono capricciosamente nello scorrere di una giornata».
Il lascito surrealista dell’amico Breton qui vira in direzione di una fluidità, di una limpidezza di accenti molto distante rispetto al prototipo dell’écriture automatique. È tangibile semmai il modello visionario del Bateau ivre di cui questo libretto rappresenta quasi una moderna riscrittura, anche se l’autore ha l’accortezza di non dichiarare una fonte così scoperta, orientandosi piuttosto sulle tracce meno battute di Soir historique, componimento delle Illuminations in cui si descrive «la mano di un maestro anima il clavicembalo dei prati». Ovverosia la mano di un dio, la mano di Gracq.