Dominati da voci che la scrittura amplifica come un megafono, mentre riporta conversazioni che, senza introduzioni descrittive e con una capacità innovativa di linguaggio straordinaria, ci immergono in presa diretta nei piccoli drammi delle relazioni quotidiane, i racconti di Grace Paley vengono ora raccolti in un unico volume e ritradotti da Isabella Zani: Tutti i racconti (in uscita giovedì da Big Sur, pp. 518, € 24,00), riportando alla attualità questa scrittrice ebrea americana, nata nel Bronx da genitori socialisti immigrati negli Stati Uniti dalla Russia zarista all’inizio del Novecento, e acclamata dalla critica non solo per le sue strabilianti storie di ambientazione newyorkese, ma anche come poeta e saggista.

Celebri i suoi dialoghi, filtrati dalla coscienza introspettiva di chi racconta, che avvengono intorno al tavolo di cucina, tra amiche su una panchina di un parco di quartiere a Manhattan, all’interno di un condominio, o per le strade del Bronx o del Greenwich Village, con personaggi – soprattutto donne, ma anche le loro controparti – che a volte tornano in più racconti (tra questi, Faith ricorre così spesso da proporsi come alter ego dell’autrice). La loro condizione viene svelata poco a poco, per brandelli di racconto che si susseguono, in una narrazione sempre aperta a nuove possibilità di evoluzione, mentre segue i personaggi che invecchiano nel tempo.

A introdurre è Saunders
La scoperta di Grace Paley nel nostro paese risale al 1982, quando Enormi cambiamenti all’ultimo momento, la sua seconda raccolta del 1974, venne pubblicata da La Tartaruga nella traduzione di Marisa Caramella, con una introduzione di Sara Poli, la principale responsabile della scoperta italiana di questa scrittrice, da allora pubblicata a più riprese. Il volume ora proposto da Sur contiene tutti i quarantacinque racconti di Paley pubblicati in America in tre successive raccolte dal 1959 al 1985, ovvero l’intera opera narrativa di questa maestra della forma breve, che non ha mai prodotto un romanzo.

A un altro, assai più giovane maestro del genere, George Saunders, dobbiamo la commossa introduzione (dove arriva a definire la scrittrice «un genio»), aggiunta a una importante prefazione-racconto, «Due orecchie e tre fortune», della stessa autrice. Già premesso alla raccolta americana di tutti i racconti, nel 1994, questo testo di Grace Paley racconta come intorno alla metà degli anni Cinquanta l’autrice avesse sentito l’irresistibile bisogno di «parlare in maniera originale delle nostre vite di femmine e di maschi in quegli anni» ricorrendo al racconto in prosa, ma trovando una grande difficoltà nel «far entrare le donne e gli uomini in carne ed ossa nella lingua». La sua sensazione – dice – era quella di avere fino ad allora assecondato «il ritmo del mondo con il dono di un orecchio solo, l’orecchio incaricato della letteratura».
Le era poi capitata quella che con humor chiama la prima di due piccole fortune, ovvero di ammalarsi: costretta a lasciare per alcune settimane i suoi bambini al doposcuola fino all’ora di cena, non stava tuttavia così male da non potersi sedere al tavolo da pranzo. Cominciò così a scrivere il suo primo racconto, «Arrivederci e grazie», che inaugura questa raccolta, riuscendo sorprendentemente a portarlo a termine, e poi un secondo, «Il concorso» e, un paio di mesi dopo, «Una donna, giovane e vecchia». Ripensando a quell’esordio anni dopo, si rese conto di ciò che era avvenuto: aveva trovato l’altro suo orecchio, quello capace di ricordare «la lingua della strada e la lingua di casa con i suoi accenti russi e yiddish, una lingua che i miei primi personaggi conoscono bene, l’unica che io parlassi». «Due orecchi – conclude Paley – uno per la letteratura e uno per la casa, a una scrittrice servono».

In quegli anni Cinquanta sopraffatti da «una narrativa mascolina», i primi tre racconti, inviati «nel vasto mondo dei periodici», non avevano trovato accoglienza. Ma le capitò una seconda piccola fortuna: grazie alla rete delle relazioni, femminili e maschili, che si era messa in azione, i suoi dattiloscritti arrivarono a un editor di Doubleday, che li lesse e si dichiarò sorprendentemente interessato a pubblicarli se ne avesse aggiunti altri sette per farne un volume. E così avvenne. Alle sue due piccole, individuali fortune, se ne aggiunse – conclude Paley nel ricostruire il percorso della sua carriera – una terza, questa volta «grande», che «ha a che fare con i movimenti politici, con la Storia che ti capita mentre stai facendo i piatti, con le guerre che gli uomini progettano per i loro figli, i nostri figli».

Voci femminili
Fino ad allora, la sua narrativa, riflettendo interessi e esperienze di se stessa donna e madre, trattava della vita quotidiana di altre giovani adulte solo parzialmente emancipate, una vita spesa in cucina, fatta di relazioni famigliari, di figli, mariti, ex mariti, amanti, ed era popolata di tante voci, soprattutto femminili, che raccontavano i «piccoli» problemi del vivere in un contesto urbano. Ora, incrociandosi con il movimento delle donne che sarebbe poi cresciuto nei decenni a venire, quei suoi racconti avevano acquistato altri significati e una diversa importanza: erano diventati una «gocciolina» nel grande oceano di una seconda ondata femminista.
I primi dieci racconti di quella che fu la raccolta inaugurale della carriera di Grace Paley, Piccoli contrattempi del vivere, uscirono nel 1959, un anno speciale per la narrativa americana, che vide anche l’esordio dell’allora giovanissimo Philip Roth, con Goodbye, Columbus. Il titolo inglese completo, all’epoca della prima pubblicazione, fu The Little Disturbances of Man: Stories of Women and Men at Love, a evidenziare una fase transitoria nella presa di coscienza femminista della scrittrice, che accetta ancora l’estensione universalistica del termine maschile «uomo». Tuttavia, nella definizione di una relazione amorosa tra donna e uomo di tipo dinamico, basata su continue negoziazioni suggerite con un accenno di ironia dall’inconsueto e intraducibile «at love» al posto del tradizionale «in love», il sottotitolo antepone, ciò che all’epoca suonava poco convenzionale, la figura femminile a quella maschile.

Sono, in particolare, le vite oscure di un universo femminile poco raccontato in letteratura dal punto di vista delle donne a venire «illuminate» dai racconti di Paley, segnati da una notevole empatia e da una eccezionale capacità di ascolto. Non a caso, l’ultimo di tutti i suoi racconti – quello che chiude la terza ed ultima raccolta, «Later the Same Day», nel volume della Sur, tradotta semplicemente come «Quello stesso giorno» – ha per titolo «Ascoltare»: vi si leggono alcuni mozziconi di conversazione maschile, colti in luoghi pubblici dal personaggio di Faith, mentre distribuisce materiale di propaganda antimilitarista; c’è poi un vivace confronto tra lei e uno dei suoi uomini, Jack, sul senso della vita, sul raccontare, sui giovani, «che alla fin fine, siamo noi a mettere al mondo»; e per finire un piccolo episodio cruciale di «diversi anni più avanti» (con Jack ormai lontano e i ragazzi che «abitavano in altri quartieri e cercavano di trovate la melodia giusta per la loro vita»), quando un’amica, Cassie, di cui finora i lettori non conoscevano l’esistenza, in macchina si volge verso l’altra protestando: «Senti Faith, perché non racconti la mia storia? Hai racconto le storie di chiunque tranne che la mia».
Com’è tipico della autrice, il dialogo si presenta in un fluire continuo di scambi di parole e di riflessioni, senza alcuna distinzione grafica. È proprio l’oralità delle conversazioni quotidiane – attraverso cui le persone si rivelano e pretendono ascolto – a venire trasferita nello straordinario storytelling di Grace Paley: con lei, la scrittura, tradizionalmente «lingua silenziosa» – ha scritto Loretta Frattale – diviene «parlante».