Dopo due mesi di tentativi inutili, dopo aver testato invano ogni possibile maggioranza politica, lunedì il presidente della Repubblica non avrà remore nel procedere con l’unica soluzione a suo modo di vedere praticabile per dare un governo al paese. Indicherà un tecnico che rapidamente gli presenterà una lista di ministri stringata (il minimo è dodici, più i viceministri) e – si può immaginare – ampiamente concordata con il Quirinale. Tutti tecnici. Questo governo, però, al momento è avviato a essere respinto dalle camere, visto che sia il Movimento 5 Stelle che la Lega escludono di votargli la fiducia. Sarebbe una bocciatura clamorosa per il capo dello stato, artefice di una soluzione immediatamente respinta dal parlamento? Al Colle sono convinti di no, perché tutti – forze politiche e opinione pubblica – hanno potuto vedere come Mattarella abbia tentato in ogni modo di evitare questa extrema ratio.

Il governo sfiduciato resterebbe comunque in carica, rappresenterebbe il paese in Europa nei prossimi importanti impegni e predisporrebbe la legge di bilancio. Il problema è che dopo un voto di sfiducia non sarebbe possibile rinviare ulteriormente le elezioni bis, che andrebbero dunque tenute in autunno (ottobre). Dunque il governo di scopo rischierebbe di non poter dare seguito al suo scopo principale, o meglio unico (di cambiare la legge elettorale non si parla): far approvare la legge di bilancio ed evitare l’esercizio provvisorio. Il temuto aumento delle aliquote Iva si potrebbe invece sterilizzare con un provvedimento ad hoc, anche fuori dalla legge di bilancio. Ammesso che questo trasferimento di sacrifici – dal valore di 12,4 miliardi per il 2019 – dalle imposte indirette ai tagli di spesa sia effettivamente giudicato essenziale (per molti economisti non lo è).
Di fronte a questa determinazione del capo dello stato, che non per niente concederà poco tempo ai partiti lunedì e immagina di avere un quadro preciso già per la fine della mattinata di colloqui, la Lega e i 5 Stelle si stanno comportando come quei ciclisti che procedono affiancati, marcandosi. Salvini accenna uno scatto, per esempio ieri ha concesso che il prossimo esecutivo sia a termine, ma mette come condizione che ci stia dentro anche il Movimento. La ragione è elementare: alla vigilia di una nuova campagna elettorale nessuno vuole regalare agli avversari il comodo ruolo dell’oppositore solitario. Mattarella ha deciso che tocca a lui rompere questa eterna surplace.

Oltre alla indisponibilità degli autoproclamati «vincitori» del 4 marzo, lo obbliga a questa scelta azzardata anche il peso del precedente del 2013, quando Napolitano rifiutò di mandare Bersani, che pure aveva una maggioranza certa alla camera, a cercare in senato i voti per il suo governo. A maggior ragione il presidente ritiene di non poter lanciare Salvini verso il parlamento, anche se si tratta del leader indicato dalla coalizione che ha raccolto il maggior numero di voti, perché non ha potuto portare nelle consultazioni numeri certi per un eventuale voto di fiducia né alla camera né al senato.

Diverso sarebbe se il presidente del Consiglio tecnico e il suo governo di «tregua» potessero contare sul non sabotaggio di chi pure non se la sente di appoggiarlo. Come fu per il governo Dini, contrastato ma non affondato da Rifondazione nell’autunno del 1995 al solo scopo di consentire l’approvazione della legge finanziaria. E di fronte all’impegno di dimettersi entro la fine dell’anno. Se per ipotesi questo «esecutivo del presidente» potesse contare sul voto di fiducia del Pd e di Forza Italia, di parte del gruppo misto e di Fratelli d’Italia, la non partecipazione al voto della Lega basterebbe a tenerlo in vita con i pieni poteri malgrado il voto contrario dei 5 Stelle. Una volta partito, il governo potrebbe contare sulla comprovata inerzia delle camere, dove è sempre più facile trovare qualcuno che vota per tenere in piedi la legislatura che qualcuno che pronto a far crollare tutto anzitempo.