Anche se il prossimo 20-21 settembre saremo chiamati alle urne per il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari – un bel diversivo per i tempi che corrono, una trappola giuridico-istituzionale atta solo a dividere per ravvivare una discussione inutile sulla “casta” politica – in quell’occasione 18 milioni e mezzo di elettori voteranno per il governo di sette regioni – Valle d’Aosta, Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia – e 5,7 milioni di loro sceglieranno i sindaci di 962 comuni.

A tutti gli effetti, quindi, questa tornata elettorale si configura come una “verifica di metà mandato” per i partiti tutti, cadendo essa a due anni e mezzo esatti dal 3 marzo 2018. In altri tempi, la febbre politica sarebbe stata altissima per un’occasione come questa ma oggi, in piena pandemia, l’attenzione è riposta altrove. E non solo perché il referendum sta dividendo l’opinione anche dentro agli schieramenti, ma perché all’emergenza sanitaria si è sommata una crisi la cui portata economica e sociale fatichiamo ancora a definire.

Eppure, il test sarà utile per capire quanto i governi regionali uscenti abbiano mantenuto il loro consenso – 5 di centro-sinistra (Valle d’Aosta, Toscana, Marche, Campania e Puglia) e 2 di centro-destra (Veneto e Liguria) – e quanto l’attuale configurazione politica del Parlamento corrisponda al Paese reale. Quanto poi questo possa essere visto come un test per la maggioranza di governo non è chiaro, anche perché i partiti che la compongono si presentano alle consultazioni regionali in ordine sparso, mostrando così una volta di più il carattere posticcio della coalizione governativa.

Certo, i risultati di cinque anni fa sembrano appartenere ad un passato remoto. Il M5S fece in tutti i casi gara a sé, come era nelle sue corde di movimento anti-sistema, a quei tempi, riuscendo a ottenere risultati variabili. Il centro-destra si impose in Veneto e solo di misura in Liguria, mentre il centro-sinistra vinse con larghe maggioranze nelle altre cinque regioni.

Nel mezzo, molta acqua è passata sotto i ponti della politica e una svolta occorse già nel 2018, con l’affermazione dei 5 Stelle e la ripresa della Lega. In quell’occasione, il M5S risultò il primo partito in Liguria (con il 30,1%), nelle Marche (35,6%), in Campania (44,8%) e in Puglia (44,9%), il centro-sinistra primeggiò solo in Toscana (33,7%) mentre la Lega dominò solo in Veneto (con il 32,2%). Ma anche dal 2018 le cose sono poi cambiate e l’elettorato si è nuovamente spostato, come confermato dalle elezioni europee del 2019 che premiarono la Lega sovranista e il centro-destra, penalizzando sia il centro-sinistra che i 5 Stelle.

Quella del 2018 fu per il centro-sinistra una sconfitta storica e una vittoria per due partiti – 5 Stelle e Lega – che pur da posizioni diverse si erano presentati come antagonisti rispetto alle posizioni “mainistream” dei partiti governativi. Eppure, da quelle elezioni né il M5S né il Pd con le sue ali sinistra (LeU) e destra (IV) sembrano avere tratto insegnamenti. Il M5S, dopo l’exploit elettorale, ha perso identità – non potendo coniugare la sua vena anti-sistema con l’essere partito di governo – e non riuscendo a tradurre in pratica un certo consenso “egalitario” che lo aveva sostenuto. Il Pd e le sue ali, viceversa, non hanno imparato lezioni, non riuscendo ad invertire la rotta che li aveva portati a perdere il sostegno del grosso della loro base. Sì, è vero, le elezioni recenti in Emilia-Romagna sembravano avere finalmente interrotto l’emorragia di voti. Ma un’analisi dei risultati delle ultime tre consultazioni regionali in Umbria, Emilia-Romagna e Calabria avrebbe dovuto far suonare più di un campanello d’allarme.

Il voto del 2018 aveva mostrato quasi plasticamente come il centro-sinistra manteneva consensi nei comuni e nelle aree più urbane, dei ceti più “protetti” e a reddito medio e medio-alto, perdendoli invece nelle aree periferiche e interne, tra i ceti meno “protetti” e a reddito medio-basso e basso. A loro volta, invece, i 5 Stelle erano riusciti a raccogliere il consenso di vaste aree del sud e tra i ceti urbani meno protetti delle aree periferiche del nord, mentre la Lega aveva rafforzato il suo consenso nel nord e in talune zone periferiche del sud, puntando su di un messaggio “sovranista” nazionalista. I due populismi italiani avevano insomma trovato una sponda nella perdita di fiducia verso un centro-sinistra percepito come lontano dai ceti popolari dei più esclusi, dei più esposti. Il voto aveva mostrato che dove le disuguaglianze sono più alte e persistenti, il centro-sinistra arretrava a vantaggio delle sirene populiste.

Questo pattern si è mantenuto anche in Emilia-Romagna dove il centro-sinistra è riuscito sì a tenere le sue roccaforti, ma più ai danni dei 5 Stelle – il cui messaggio egualitario si è dissolto come neve al sole – che della destra, che ha invece mantenuto i suoi consensi nelle zone periferiche e più esposte.

Dopo due anni e mezzo di legislatura, il M5S è come “imploso” – non riuscendo a portare a casa un risultato, mentre le condizioni sociali che ne avevano favorito il successo paiono ancora tutte lì – e il centro-sinistra frammentato è ancora alla ricerca del bandolo della matassa, non avendo ancora ritrovato una direzione chiara di marcia. Disuguaglianze e disagio mordono e la crisi in cui oggi versa l’Italia non promette nulla di buono. Anzi, se non fosse per quel generale senso di smarrimento in cui il paese si trova, si potrebbe dire che ci sono tutti gli elementi per una frattura di proporzioni ancora maggiori tra chi ha e chi non ha una speranza di progresso davanti. Con buona pace del “rilancio”, i cui contorni sono vieppiù indefiniti, l’insipienza della destra troverà un’altra occasione per mostrare i suoi denti finti.