Appuntamento oggi al Quirinale, il Pd alle quattro, i 5 Stelle alle diciannove. Subito dopo, a tarda sera (ma non si esclude domattina), il presidente della Repubblica dovrebbe dare – confermare – l’incarico di formare il governo a Giuseppe Conte. Lasciandogli qualche giorno per presentare la lista dei ministri. Che però è già pronta, salvo nella casella dei vicepremier. Conte ne vorrebbe due, uno al Pd e uno a Di Maio. Il Pd uno, al Pd, anche per sancire che il premier è grillino a tutto tondo. Ma la lista c’è ed è il frutto di lunghe trattative nel corso di una giornata dove tutto aveva rischiato di saltare. Come succede sempre alla vigilia di un accordo.

Lasciatisi all’una di notte senza troppo litigare, le delegazioni di Pd e M5S dovevano rivedersi alle undici ieri mattina. Ma un’ora prima una nota M5S annuncia la rottura unilaterale delle trattative. Zeppa di accuse al Pd, descritto come confuso e concentrato solo sulle poltrone, la nota comunica brutalmente quello che Conte avrebbe spiegato con parole più gentili, poco dopo, a Zingaretti: non possiamo «umiliare» Di Maio. La stessa cosa che Casaleggio aveva raccomandato al segretario del Pd.

DA QUEL MOMENTO la giornata comincia a girare attorno al destino personale del «capo politico» 5 Stelle, che non riesce a vedere il punto di caduta del suo tracollo politico cominciato con il «tradimento» di Salvini. Accanto a lui Di Maio ha tenuto per tutta la giornata i ministri Bonafede e Fraccaro, fedelissimi anche loro in cerca di riconferma al governo.

Di Maio resiste al ridimensionamento. Vuole restare al governo mantenendo l’ufficio di vice a palazzo Chigi e vuole sostituire Salvini al Viminale. La ragione di tali pretese il leader decadente l’ha scritta su facebook in un post molto vecchio, del 20 agosto, che è ancora l’ultima cosa che ha pubblicato: Giuseppe Conte, la «perla rara» l’ho scelto io.

Ma Giuseppe Conte è sempre più il nuovo leader dei 5 Stelle, anche perché così lo identificano i partner dell’alleanza – e di conseguenza pretendono per loro e loro soltanto il posto di vice premier. Ma è rottura, Di Maio è la causa e la rottura è seria. Il Pd annulla la direzione e convoca per il pomeriggio un organo di partito inventato allo scopo: la «cabina di regia». Il trattativista Delrio lancia un appello: «C’è uno stallo. Qualcuno prenda in mano la situazione».

E qualcuno interviene. Conte con una nota informale di palazzo Chigi garantisce che «in presenza del presidente del Consiglio non è mai stata avanzata la richiesta del Viminale per Luigi Di Maio». Non è vero, ma è il segnale che quella richiesta non c’è più. Resta e resterà ancora a lungo il problema della vice-premiership.

Di Maio aspettava anche un altro intervento, quello di Grillo. Sperava in una parola di appoggio. Invece Grillo posta uno dei suoi deliri che nessuno capisce ma che probabilmente tutti giustamente interpretano come un benservito a Di Maio. Che a quel punto rincula sul ministero della difesa. Può garantirgli la visibilità di cui adesso ha tanto bisogno e non è quel ministero di seconda fascia dove voleva relegarlo Zingaretti all’inizio della trattativa. La sua ultima speranza è di pilotare al posto suo al Viminale uno dei suoi fedelissimi, per esempio Bonafede che è anche nel cuore di Conte.

ALLE 16.00 al Quirinale comincia la prima giornata, non decisiva, di consultazioni e il Pd si riunisce. Zingaretti sente ancora una volta Conte, Marcucci altro trattativista spinto dichiara: «Ci sono stati passi in avanti, sono ottimista». Venti minuti dopo piove il tweet di Donald Trump, ingerenza inedita ma in pieno stile trumpiano. Errore compreso: Giuseppe Conte diventa «Giuseppi, un uomo di grande talento, spero resti primo ministro». Vero è che il tweet successivo Trump lo dedica a Bolsonaro, con identiche parole di incoraggiamento ed elogio. Se per Salvini è un dolore – «sono in silenzio stampa», ma quando mai? – per Conte è un «orgoglio». Poco dopo uscirà da palazzo Chigi con il figlio per andare a comprare un telefono nel negozio di fronte, provocando un ingorgo di passanti e giornalisti. Applausi ma anche qualche urlaccio.

Intanto al Pd non arrivano segnali su come rimuovere l’intralcio Di Maio da palazzo Chigi, ma l’indicazione è di andare comunque avanti. Alle 18.20 via libera al primo tavolo programmatico Pd-M5S. I capigruppo dem Delrio e Marcucci con gli esponenti della segreteria De Micheli e Martella si siedono accanto ai capigruppo grillini D’Uva e Patuanelli con i loro vice. In un ufficio di Montecitorio scattano la prima foto della nuova maggioranza, il punto di non ritorno.

LA RIUNIONE si conclude senza scossoni, e ce ne sarà un’altra stamattina presto. Escono i capigruppo grillini e ci tengono a far sapere che devono riferire al «nostro capo politico», che è ancora – giurano – Di Maio. E non (ancora) Conte. Lo raggiungono ne suo ufficio di vice a palazzo Chigi, lo trovano con Fraccaro, Bonafede e il sottosegretario Spadafora. Da lì Di Maio non esce nemmeno per partecipare all’assemblea dei gruppi parlamentari 5 Stelle: avrebbe dovuto ascoltare anche critiche. Ma soprattutto, fino all’ultimo, non vuole lasciare palazzo Chigi.