L’eventuale rifiuto (da ufficializzare) da parte della Bce alla proroga richiesta dal Monte dei Paschi di Siena obbligherebbe il governo a una corsa contro il tempo: senza contare che si tratta di un esecutivo dimissionario, nel pieno di una crisi. L’unica alternativa alla ricapitalizzazione da parte di un privato o di una cordata – per cui si sarebbe esaurito il tempo, non essendosi fatto avanti nessuno – resta la nazionalizzazione: Mps dovrà nel caso essere ricapitalizzata con soldi pubblici, con il Tesoro che aumenterà la sua quota di controllo. Ma l’operazione porterebbe con sé diversi rischi.
Fonti di Palazzo Chigi ieri sera hanno fatto filtrare che il decreto sulle banche (non solo sulla questione Montepaschi, contiene ad esempio anche la riscrittura della riforma delle Popolari dopo lo stop arrivato dal Consiglio di Stato) è pronto per essere varato, qualora fosse necessaria una misura urgente entro domenica. Teoricamente, per la ricapitalizzazione, Mps aveva fissato un calendario – avallato anche dalla Banca centrale europea – che dava come deadline il 31 dicembre: ma con la crisi di governo, e senza che nessun investitore abbia mai confermato la volontà di partecipare nonostante iniziali interessamenti (si era parlato del fondo del Qatar, degli hedge fund Soros), la situazione è precipitata e le borse potrebbero già lunedì, alla riapertura, dare segnali molto più negativi di quelli inviati ieri.
Il problema centrale del governo sta nella necessità di arrecare meno danno possibile ai risparmiatori, anche se in questo caso le regole Ue – il bail in è ormai noto a tutti noi – non aiutano, perché prescrivono che a partecipare con quote proprie al salvataggio siano anche azionisti e obbligazionisti. Ma il caso delle quattro banche ha già sufficientemente scottato Renzi, e dovendo essere il decreto presumibilmente a carico dell’attuale esecutivo (se è vero che i tempi devono essere strettissimi) bisogna agire anche per non generare nuovi scontenti nell’elettorato.
La via potrebbe essere quella della «ricapitalizzazione precauzionale», con il Tesoro che sostanzialmente acquista le quote anche dai risparmiatori a rischio. Seguendo alla lettera le norme del bail in, infatti, lo Stato dovrebbe subentrare al consorzio di garanzia per l’aumento di capitale ma il prezzo da pagare sarebbe intanto l’azzeramento dei bond subordinati (con tanto di piccoli risparmiatori, tra gli altri, rovinati). Al contrario, si punta invece a tutelare la clientela retail.
Il provvedimento del governo dovrebbe contenere poi un pacchetto di misure che non sono entrate nella legge di Bilancio, a partire da nuove modalità per assicurare la disponibilità finanziaria al Fondo di risoluzione per il sistema bancario. Si tratta di un meccanismo aggiuntivo, nel caso in cui le contribuzioni ordinarie e straordinarie già versate non bastassero. Un modo per mettere ancora più al sicuro gli istituti di credito italiani, già presi di mira da tempo, ma che potrebbero improvvisamente entrare nei giochi degli speculatori visto il delicato passaggio politico che attraversiamo.
A trovare spazio nel decreto, come detto, potrebbe essere anche un intervento sulle banche di credito cooperativo, con una norma che modifichi il tetto oltre il quale diventa obbligatoria la trasformazione in società per azioni. Nodo che non ha trovato soluzione in legge di Bilancio per la impossibilità di presentare emendamenti al Senato dopo il referendum e l’approvazione lampo con fiducia.
Ultimo capitolo, altrettanto spinoso, l’eventuale «prestito» che il Tesoro si preparerebbe a chiedere dall’Esm – il fondo interbancario di garanzia Ue – di ben 15 miliardi per consolidare le banche a rischio. Sono indiscrezioni di stampa, bisognerà vedere che piega prenderà la crisi di governo.