Nelle intenzioni di Salvini, il Consiglio federale della Lega che si riunirà oggi pomeriggio a Roma dovrebbe essere la mossa di svolta nella partita del governo. I tempi sono ristretti: tra meno di 10 giorni, il 13 ottobre, dovranno essere eletti i presidenti delle camere e Giorgia Meloni non ha nessuna intenzione di farlo al buio. Prima del voto vuole che sia definito a quali partiti, se non a quali singoli ministri, andranno i dicasteri chiave: Economia, Esteri, Interni e Difesa.

Salvini mira a farsi dare dal Federale un mandato unanime per trattare con il peso di una Lega compatto dietro di lui. I nomi che indicherà dovrebbero essere molti e alcuni studiati per far saltare la futura presidente sulla sedia: figure come Bagnai, Borghi e Siri la cui nomina verrebbe interpretata in Europa come un rullare dei tamburi di guerra. La tattica di Salvini sarà quella di alzare la posta per chiudere con una mediazione favorevole. I posti a cui mira davvero sono gli Interni per un prefetto scelto da lui, la Giustizia per Giulia Bongiorno, l’Agricoltura, gran bacino di consenso, per se stesso con in più il vicepremierato, le Infratrutture e le Politiche regionali con una rosa di nomi. Tutte e 6 le poltrone non può strapparle ma spera di portarne a casa 4 più il vicepremierato.

A Giorgia Meloni le pretese dell’alleato non piacciono affatto ma sa di dover trattare e l’unico pollice volto all’ingiù una volta per tutte è il Viminale per Salvini. Quello è off limits, quanto al resto si può vedere. Ma in questa fase la logica e gli interessi degli azzurri e dei leghisti sono molto distanti da quelli dei tricolori e della loro leader. Salvini e Tajani combattono solo per i loro partiti, per strappare più posti possibile. Alla leader e ai suoi Fratelli spetta invece l’onere di costruire una squadra credibile. Quella squadra, per FdI, deve essere piena di tecnici sia tra i ministri che tra i sottosegretari. Tecnici d’area magari, come l’ex direttore dell’Ema Guido Rasi per la Sanità, ma con credenziali professionali a prova di bomba.

Questione di pallottoliere non di visione antipolitica, assicurano da FdI. Non si può fare finta che il taglio dei parlamentari abbia lasciato le cose come stavano. In aula al senato il vantaggio non andrà oltre i 13-14 voti ma se si mettono nel conto quelli che di certo latiteranno, come Berlusconi e Bossi ma anche Salvini, se si sommano le assenze fisiologiche, lo scarto è all’osso. In aula c’è ancora un certo margine, nelle commissioni no. Lì il vantaggio potrebbe ridursi a un voto e questo comporterà una serie di conseguenze.

La prima è appunto la necessità di non svuotare l’aula di palazzo Madama (vale anche per Montecitorio) promuovendo tanti senatori a ministri o sottosegretari. La seconda è che saranno in prima fila, spesso come relatori, figure che nelle camere pre-taglio e in condizioni diverse sarebbero state gregarie. I ministri che secondo Meloni devono essere tecnici sono parecchi, almeno quattro, forse anche cinque. È vero che gli alleati strepitano e strepiteranno come fa Tajani ripetendo che «qualche tecnico va bene ma il governo deve essere politico». Ma è anche vero che lei ha la risposta già pronta: se gli alleati vogliono mettere tutti politici facciano pure, ma non possono chiedere a FdI di non compensare quei vuoti nei ranghi parlamentari sovrabbondando in tecnici. Così però la giostra torna al punto di partenza, con quali ministeri spetteranno ai tricolori e quali alleati come posta in gioco.

Su una sola casella nessuno ha dubbi: l’Economia deve andare a un tecnico e se si trattasse di Fabio Panetta tutti alzerebbero i calici. Meloni non si arrende, pare che anche Draghi sia d’accordo e chissà se si è speso o si spenderà per spingere il banchiere. Che per ora sembra inamovibile nel suo rifiuto.