Non è bastata alla Ue la clamorosa retromarcia del governo Salvini-Di Maio che, al primo stormir di fronda dei mercati, ha rinunciato al proposito di replicare il 2,4% del rapporto deficit/pil per tre anni, proponendo un decalage che lo porterebbe attraverso il passaggio del 2,1% nel 2020, al 1,8% nel 2021. Ma i censori europei non potevano accontentarsi, anche perché per loro la cifra che più contava era quella del 2019, visto che il buongiorno si vede dal mattino.

Ecco quindi, puntuale come goccia da un rubinetto guasto, comparire la lettera di Dombrovskis e Moscovici in risposta a una di Tria. Una missiva certo diversa per toni e contenuti da quella già famosa della Bce inviata al governo italiano il 5 agosto del 2011, a firma Trichet e da Draghi. Anch’essa doveva essere strettamente riservata, ma non a caso venne immediatamente “sparata” sulle prime pagine di un grande quotidiano italiano: il tono era perentorio e dettava ciò che si sarebbe dovuto fare fin nel minimo dettaglio. Una road map che divenne subito il programma politico del governo Monti e di quelli a seguire.

Quest’ultima è assai meno imperativa – la strada era già stata tracciata – ma decisamente minacciosa. Sta scritto che «gli obiettivi di bilancio rivisti dell’Italia sembrano puntare verso una significativa deviazione dal percorso fiscale raccomandato dal Consiglio». E quindi si attende di vedere il dettaglio delle misure che la manovra conterrà. Una entrata a piedi giunti nel dibattito che deve ancora aprirsi nella sessione di bilancio. L’annuncio di un’escalation che può portare all’apertura di una procedura di infrazione; e insieme, un assist alle agenzie di rating, che peraltro il peggio lo sanno fare anche da sole, che dovranno esprimersi sull’affidabilità del nostro paese.

Il rischio di un downgrade è dietro l’angolo, con tutto ciò che comporta per il costo dell’indebitamento in un quadro nel quale termina il Quantitative Easing. Del resto questi sono stati gli argomenti nell’inusuale incontro tra Mattarella e Draghi – da quest’ultimo pare non siano giunte rassicurazioni di benevolenza sul caso italiano. I dubbi maggiori vertono proprio sulle previsioni di crescita fornite dal governo: l’1,5% per l’anno prossimo, seguito da un 1,6% per quello successivo e poi da un ripiegamento sull’1,4% nel 2021.

Poco credibili e non solo dai mastini della Ue, visti i tassi di crescita da prefisso telefonico – non solo in Italia – e il crollo della nostra produzione industriale nell’ultimo trimestre. Il carattere espansivo della manovra non può fondarsi solo su una parziale e contraddittoria ridistribuzione, ma servirebbe una politica di investimenti in settori innovativi e propulsivi per qualità e tasso occupazionale. Invece abbiamo la solita pioggia di incentivi alle imprese, come gli iperammortamenti di industria 4.0, accompagnata dall’eterno condono fiscale, chiamato «pace».

Il governo è a una stretta. E si vede. Il suo premier pare aggrapparsi ai pareri di una pletora di esperti economici, che però forniscono ricette opposte. I due maggiorenti del governo si contendono la palma della dichiarazione più roboante e pacchiana (vince Salvini), dicendosi sicuri che le prossime elezioni europee cacceranno i burocrati. Intanto però se di piano B si parla non ci si riferisce all’Italexit, quanto alla possibilità di una marcia indietro nel corso del dibattito parlamentare anche per quanto riguarda il 2,4% previsto per l’anno che viene. Il punto che più preme all’Europa. Per questo Di Maio, il meno rozzo dei due, si spinge fino ad apprezzare il fatto che la lettera sia giunta a mercati chiusi.

Se ci fosse un’opposizione sarebbe un’occasione ghiotta. Invece anche tra quei pochi deputati della sinistra c’è chi accredita la manovra del governo di una netta inversione di rotta. Se si guarda una per una le misure assunte dal governo, da un reddito di cittadinanza diventato di sudditanza, con un meccanismo di controllo su chi lo riceve che ricorda il «sorvegliare e punire» di Foucault; fino ad una quota cento per le pensioni, che diventa poi 101, 102 e via proseguendo essendo il requisito degli anni contributivi fermo a 38, con la possibilità di soli due anni di “figurativi”, penalizzando precari e occupazione femminile, non si intravede neppure da lontano la sagoma di Keynes, quanto piuttosto quella del suo avversario storico, Friedrich von Hayek, o di un Milton Friedman o degli alfieri di un capitalismo (non troppo) caritatevole.

Ma è davvero così imbattibile l’intransigenza della Ue, senza il salto nel buio della fuoriuscita? Boaventura de Sousa Santos, in un recentissima rivista, risponde in modo diverso. Parla dei successi del Portogallo. Certo non è l’Italia, too big to fail. Ma uno spiraglio di luce da lì viene. Lo studioso portoghese ci dice che «non è un miracolo, è una sorta di lavoro artigianale in cui ogni punto deve essere negoziato». Questo permetterebbe di non essere schiacciati e di porre il problema di una riscrittura dei Trattati. Da soli è difficile. Ma se l’Italia anziché abbracciare Visegrad costruisse un asse che dalla Grecia, raggiunge la Spagna e il Portogallo, il Sud del continente, crescerebbe la massa critica di chi vuole radicalmente cambiare questa Europa. Ma ciò richiede un governo di tutt’altro colore e politica.