Nel clima, insolito per una democrazia, di celebrazione per i due anni trascorsi da Renzi al governo, si distingue un intervento di Sabino Cassese (Corriere della Sera del 16 febbraio). Il giudice costituzionale emerito ha un’ammirazione per Renzi cui attribuisce «tre colpi da maestro». Lo chiama «il regista» e vede nella «energia del populismo» una formidabile forza con la quale ha sinora realizzato «record» e prestazioni memorabili.

Le virtù eccelse dello statista di Rignano per Cassese poggiano su una miscela fantastica: un po’ di Berlusconi, un po’ di Grillo e un po’ di Salvini. Un mostro? Nient’affatto. È proprio con questa porzione magica di tutti i populismi possibili che Renzi «è riuscito a far risalire la fiducia dei cittadini nello Stato». Sarà.
Da un giudice emerito della Consulta ci si aspetterebbe qualche attenzione a riti e forme. Ma questa ossessione per le procedure non vale per Cassese. Il quale esalta il governo proprio perché con «una politica di movimento» (canguri, raffiche di voti di fiducia in aule deserte) ha messo «in cantiere e fatto approvare le riforme costituzionali, elettorale ed amministrativa».
Innamorato della «politica-movimento» Cassese non coltiva la politica-istituzione e quindi non trova nulla da dire sulla irrituale, anche se non inedita, titolarità governativa delle riforme costituzionali. Un solo appunto, però. Cassese dà per già approvate le riforme. E tuttavia le riforme costituzionali, a chi viene dalla Consulta non dovrebbe sfuggire il dettaglio, necessitano di una procedura aggravata, e ancora la camera deve provvedere alla seconda deliberazione. Va bene l’anti-formalismo della «politica-movimento», ma le forme ancora contano.

Non nel pensiero giuridico di Cassese, a quanto sembra. Egli, per sanare l’ambigua, non illegittima, posizione di un presidente del consiglio non parlamentare, conia la sorprendente formula della «fiducia popolare posticipata». Essa contiene una categoria giuridica posticcia (il governo peraltro ha bisogno di fiducia parlamentare, non di una investitura popolare) e una ingenuità politica (Renzi non era candidato neppure alle europee che lo avrebbero legittimato ex post).
Non stupisce che un giurista sensibile alle forzature della «politica di movimento», e con un’idea strana dell’investitura posticipata dei governi parlamentari, consideri i sindacati dei lavoratori delle «corporazioni», e celebri Renzi perché ha messo a nudo «l’incapacità delle oligarchie sindacali di uscire dal loro medioevo». Chi il medioevo l’ha invece abbandonato è il giudice emerito che vive già nello splendido futuro della politica a «fiducia popolare posticipata». Dinanzi a concetti così scivolosi, qualche dubbio circa la saldezza dello stato di diritto in Italia è inevitabile.