L’accordo di programma non c’è. Però verrà annunciato con campane a festa, anche se il gran giorno non sarà domani. Ai futuri alleati servono almeno 24 ore in più e il Quirinale le ha già concesse. Ma l’esito positivo, anche se finto, è già scritto. Nulla di strano. Da che politica è politica le frizioni sul programma si risolvono negandone l’esistenza e sperando che poi si appianino davvero. Però sarebbe un errore sottovalutare le distanze emerse nell’incontro di ieri tra Di Maio e Salvini, quelle che hanno impedito che venisse diramato un comunicato congiunto. Se il governo nascerà, sarà su quei fronti che rischierà una rapida deflagrazione.

SONO DUE CAPITOLI, ma tutt’altro che trascurabili. Il primo è il rapporto con la Ue. Fedele alla parte «istituzionale» che si è cucito addosso, dopo il summit i 5S spargono rassicurazioni a piene mani: «Nessuna forzatura sul deficit. L’obiettivo iniziale è rispettare i target, ma ogni eventuale necessità di sforamento verrà discussa con i partner europei». Salvini sul capitoletto glissa. Si è scelto una parte in commedia opposta a quella del socio. Ha rivendicato esplicitamente il «populismo» e l’antieuropeismo. Il silenzio di ieri dimostra che l’idea di lasciare la felpa per il doppio petto non gli piace.

LA SECONDA DIVARICAZIONE è persino più strutturale. In apparenza riguarda solo l’Ilva, e già non sarebbe poco. In realtà rinvia a una contrapposizione complessiva. Sulla venefica fabbrica che tiene in vita e uccide Taranto, la Lega, che per cultura e per base sociale è un partito che punta su crescita e sviluppo, è contraria a ogni idea di dismissione. M5S, che è movimentista, ecologista, figlio dell’utopica «decrescita felice», è sempre stato per la riconversione. Non si tratta solo dell’acciaieria più grande d’Europa, ma di un intero orizzonte politico, di due opzioni alternative che sarà difficilissimo conciliare giorno per giorno.

IL PREMIER NON C’È. I promessi sposi lo cercheranno oggi, al Pirellone di Milano, in un vertice a cui dovrebbe partecipare anche Davide Casaleggio. Ieri si era diffusa la voce che Di Maio reclamasse di nuovo per sé l’alto incarico. A sgombrare il campo è stato il diretto interessato: «Ho confermato a Salvini la mia disponibilità a un passo indietro». Le veline del Carroccio sono più precise. Dicono che il candidato deve essere un politico: dopo aver smadonnato per anni contro i tecnici piazzarne uno al comando non starebbe bene. Però non di partito né parlamentare. Un identikit facile facile. E’ possibile che i due leader abbiano già quadrato il cerchio con un nome segretissimo. In caso contrario sarà un’impresa presentarsi a giorni da Mattarella con qualcosa di concreto.

La maggioranza, quella almeno c’è e ben delineata. Ieri Di Maio ha incontrato Giorgia Meloni. Che l’incontro si sia concluso con un nulla di fatto è la sola certezza. Per il resto le versioni sono diametralmente opposte. Il leader dei 5S assicura di aver illustrato, con «massima cortesia», le ragioni per cui FdI non può essere presa in considerazione come partner. Sorella Giorgia concorda sulla cortesia. Però, precisa, a volere il colloquio è stato Di Maio, chiedendo sostegno per la sua premiership o per quella di un compagno di partito e offrendo in cambio ministeri. A declinare è stata lei: «FdI non potrebbe mai far parte di un governo a guida grillina».

DUNQUE LA MAGGIORANZA resta composta da due soli partiti, con 8 voti di margine al Senato. Anche Berlusconi sarà all’opposizione. Forse non voterà contro sin dalla prima fiducia, anche se probabilmente sì, ma è un particolare. La sua opposizione non sarà comunque benevola. «Quello di Salvini non è un tradimento«, assicura. Però aggiunge lieve: «Speriamo che questi due non vadano avanti, sennò mettono la patrimoniale». Più che benevolo lo sguardo azzurro è gufante e, con appena 8 senatori di vantaggio, è prevedibile che il Cavaliere mediti di darsi da fare per acquisire al più presto la chiave per tenere in vita o finire un governo che detesta da ancor prima che nasca.

MATTARELLA, QUANDO infine verrà annunciata la lieta novella, convocherà i due partiti e chiederà alcuni chiarimenti. Per esempio vorrà sapere se c’è un accordo o se gli si chiede di avallare un «contratto» che potrebbe essere abbattuto dal «referendum fra gli iscritti». Poi verificherà se si parla di un governo con tanto di premier o solo di un’affannosa ricerca. Il Quirinale ha già chiarito che solo nei giorni successivi si passerà a parlare di dicasteri e a vagliare uno per uno i possibili ministri. Su molti dei quali il presidente avrà molto da dire.