Silenzio su tutta la linea: il governo egiziano non commenta la conferenza stampa della famiglia Regeni. Ma dal mondo dell’informazione qualcosa trapela: la paura che eventuali sanzioni possano far traballare relazioni commerciali consolidate, in un periodo non certo roseo per l’economia del Cairo, e la conseguente spaccatura interna al governo tra chi opta per l’assunzione di responsabilità e chi preferisce far “passà ‘a nuttata”.

Se ieri le prime pagine dei quotidiani egiziani erano alle prese con il dirottatore del volo della Egypt Air, quasi tutti hanno riportato le parole dei genitori di Giulio. Nessun commento ufficiale da parte del governo, ma tutti gli articoli – su Masr al-Arabiya, al-Ahram, Egypt Independent, Mada Masr, Daily News Egypt, Egyptian Streets – si concentrano sulla presa di posizione di Paola e Claudio Regeni: senza risposte serie e trasparenti da parte egiziana, la famiglia renderà pubbliche le foto del corpo martoriato di Giulio, con su la firma dei torturatori di polizia e servizi segreti. Lo ribadisce Imad Al Din Hussein, direttore del quotidiano indipendente Al Shorouk: secondo un’autorevole fonte del governo, dietro l’omicidio ci sono i servizi segreti egiziani.

Ma c’è chi scrive di più: Cairo Portal, agenzia web egiziana, riporta di una spaccatura dentro il governo egiziano. Due le alternative: tenere duro e proseguire sulla via dello scaricabarile o ammettere in qualche modo le responsabilità del governo egiziano. Una svolta, quindi, nel caso Regeni? Il quotidiano cita fonti anonime interne al Ministero degli Esteri: «Secondo fonti vicine al Ministero, le dichiarazioni del ministro degli Esteri ‘Il caso Regeni è un caso isolato’ è forse un preludio al riconoscimento delle responsabilità da parte dell’Egitto».

Il commento fa seguito a quanto affermato dal ministro Shoukry lunedì durante un’intervista all’emittente tv Mbc. In quell’occasione Shoukry ha parlato del possibile impatto che l’omicidio del giovane ricercatore italiano e le conseguenti falle nelle indagini potrebbero avere sul paese.

«Il governo egiziano si trova in grande difficoltà – prosegue Cairo Portal – soprattutto dopo che quello italiano si è rifiutato di credere alla storia della banda criminale». Da qui la frattura interna all’esecutivo: «Altre fonti dicono che c’è una controversia all’interno del governo. Una parte riconducibile al Ministero degli Esteri punta sulla necessità di risolvere la questione in modo trasparente, anche se questo implicherà il riconoscimento delle responsabilità del governo stesso e il sacrificio di qualche testa per evitare ingenti perdite economiche e politiche. L’altra parte invece ritiene necessario tenere duro fino all’ultimo momento, cercare di guadagnare tempo affinché entrino in gioco gli interessi economici e coprano l’accaduto. Soprattutto visti i rapporti commerciali ed economici che grandi aziende italiane hanno in Egitto. Un’ammissione di colpa, dicono, significherebbe pagare un prezzo alto e potrebbe essere il pretesto per trascinare in giudizio componenti importanti del regime, persino il capo di Stato, in aule dei tribunali internazionali».

In ballo c’è tanto, tantissimo, rapporti commerciali miliardari che fanno dell’Italia il primo esportatore europeo in Egitto: tre miliardi di euro nel 2015, 3.1 previsti per il 2016. Ci sono i contratti dell’Eni per il giacimento di Nooros, sul Delta del Nilo, da 14 miliardi di dollari e quello che arriverà per il giacimento sottomarino di Zhor (riserve stimate per 850 miliardi di metri cubi di gas).

Secondo i dati dell’Autorità Generale egiziana per gli Investimenti riportati da Linkiesta, ci sono 880 aziende italiane operative in Egitto – da Edison al Gruppo Caltagirone, dalle compagnie turistiche Alpitour e Valtour alla Pirelli e alla Italcementi – che producono un fatturato annuale di 3,5 miliardi di euro. C’è un business nel settore militare dal valore di 3.7 milioni di euro, secondo la Rete Disarmo.

Reagisce anche il procuratore generale Nabil Sadiq che annuncia la creazione di un pool investigativo per coordinare le procure coinvolte nelle indagini. È sui social network, però, che appaiono gli attacchi più duri al generale: tanti gli egiziani che citano le parole di Paola Regeni, che ricordano che Giulio è stato ucciso come un egiziano, che attaccano il presidente golpista. I genitori del giovane ricercatore hanno rappresentato tutte quelle famiglie egiziane che non hanno occasione di dire la loro, di parlare dei figli scomparsi o uccisi sotto tortura.

Il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, lo ha ricordato martedì: nel 2015 i casi accertati di tortura da parte di polizia e servizi segreti sono stati a 1.176, quasi 500 terminati con la morte dei prigionieri (dati Centro el-Nadeem). E nel solo mese di febbraio se ne calcolano 88, di cui 8 decessi.

Due di loro morirono negli stessi giorni in cui Giulio era ostaggio dei suoi aguzzini: «Mohammed Hemdan, arrestato il 18 gennaio sul posto di lavoro – scrive Noury sul Fatto Quotidiano – e ritrovato morto in un obitorio il 25 gennaio; e Ahmed Galal, arrestato il 19 gennaio ad un posto di blocco e ritrovato a sua volta morto in un obitorio il 3 febbraio». I loro corpi portavano i segni inconfutabili delle torture, ferite da armi da taglio, unghie strappate, lividi. Il ministro degli Interni Ghaffar disse che erano morti in scontri a fuoco.