Le incaute dichiarazioni del vice-premier Luigi Di Maio contro il gruppo Gedi (Repubblica, Espresso, Secolo XIX, Stampa) sono un pessimo sintomo.

Come certi indicatori in una visita medica sono presaghi di problemi seri, così attaccare la libertà di informazione è sempre l’anticamera di qualcosa di brutto.

Criticare è giusto, anche aspramente. Maramaldeggiare sulle difficoltà di una componente importante dell’editoria è tutt’altro: è l’esibizione del volto autoritario che sta dietro al maquillage popolar-populista.

L’uscita sconcertante di Di Maio si accompagna a quelle dell’omologo Salvini e, persino, alle annotazioni simili svolte di recente dal pur pacato sottosegretario Crimi. E poi la «moral suasion» esercitata verso le aziende pubbliche a non fare inserzioni pubblicitarie sui giornali; nonché la voglia matta di chiudere il Fondo per il pluralismo e l’innovazione, cui attingono qualche risorsa – tra gli altri – il manifesto e l’Avvenire. Quotidiani già messi al bando dalla Lega nella biblioteca di Monfalcone.

Non è che l’inizio? Speriamo di no, benché la richiesta leghista alla Rai di togliere il patrocinio al festival Sabir sulle migrazioni sia un orrido prolegomeno.

Il 9 ottobre la federazione della stampa, il sindacato dei giornalisti della Rai e l’ordine nazionale tengono un’allarmata conferenza stampa.

Ad Assisi, nel corso di un bel seminario sull’informazione, l’associazione Articolo21 ha lanciato l’idea di una manifestazione nazionale. Giusto.

La libertà e il diritto all’informazione sono beni comuni, laicamente sacri. A maggior ragione quando una testata ti attacca e non ti piace.