Nel suo discorso apparentemente prelatizio ma in realtà affilato, Enrico Letta ha lanciato due sfide, una amichevole ma decisamente competitiva rivolta ai 5 Stelle e a Conte, l’altra molto più frontale indirizzata alla Lega. Il nuovo segretario del Pd si rende evidentemente conto di quanto, in poche settimane, Salvini sia riuscito, complice l’inerzia della ex maggioranza, a «mettere il cappello» della destra sul governo Draghi. Questione d’immagine, non di contenuto, ma l’immagine ha il suo peso. Ecco perché Letta ci tiene a sottolineare che è il Pd la colonna portante del governo Draghi ma ecco anche perché rispolvera un tema come lo Ius soli, che sa essere impraticabile in questa legislatura. L’obiettivo è tracciare una linea di demarcazione. Ricordare a tutti che anche se la Lega si sbraccia per apparire forza moderata le differenze ci sono, profondissime. Non possono essere occultate dalla comune appartenenza a una maggioranza dettata dall’emergenza.

Salvini mangia la foglia e strepita: «Letta parte male. Se parla di Ius soli vuol dire che vuol fare cadere il governo». Lo rimbecca subito il capo dei deputati del Pd Graziano Delrio: «Cosa si può fare e cosa no lo decide il parlamento». È in effetti la linea che aveva scelto di seguire Draghi, delegare al parlamento tutto quel che non attiene agli obiettivi di pertinenza stretta del governo, essenzialmente Recovery e pandemia. Ma va da sé che tentare l’affondo sullo Ius soli significherebbe mettere a rischio il governo ed è improbabile che Letta voglia sfidare così la sorte. Ma il segnale resta trasparente, così come è chiaro che un Pd comprensibilmente deciso a fronteggiare la Lega nonostante la convivenza in maggioranza è destinato a creare fibrillazioni in serie.

Ma anche la competizione «amichevole» con i 5 Stelle e Giuseppe Conte è stata accolta male da una parte della maggioranza. Il capo dei deputati di LeU Fornaro lo dice apertamente, quando critica «la parte del discorso in cui Letta mette tutti sullo stesso piano, chi ha lavorato con il Pd per costruire l’alleanza con i 5S e chi ha cercato di destrutturarla».

I toni felpati mascherano un dissenso strategico che non riguarda solo LeU ma appunto anche i grillini. Il disegno di Letta non è quello di Zingaretti. Se ne scosta in un punto essenziale. L’ex segretario pensava all’alleanza strategica con i 5 Stelle e LeU: la coalizione era quella. Il successore ha in mente l’Ulivo, con il Pd come perno, e i pentastellati forza esterna con la quale trattare. Previa verifica di «cosa sarà il Movimento 5 Stelle di Conte». L’alleanza non è in discussione ma i tratti della stessa sì. Prima di tutto perché in questo modello non è più scontata la candidatura a premier di Conte, che invece nella coalizione a tre sarebbe stata inevitabile. Poi perché la proposta di ridare vita all’Ulivo con i 5S partner esterni mette fuori gioco ogni tentazione di veto pentastellato.

Non a caso Letta cita tra gli interlocutori Renzi. Quanto poi sia possibile mettere insieme due formule tra loro distanti pur se non necessariamente antitetiche come l’Ulivo 2.0 e l’asse Pd-M5S-LeU è tutto da verificarsi. I renziani, come sul lato opposto la Si di Fratoianni, accolgono ben volentieri l’invito al dialogo. Ma se gli si parla dei grillini glissano. «Non è un problema attuale. Se ne parlerà nel 2023», taglia corto Rosato.

Il disegno vagheggiato da Letta presenta una complicazione in più. L’alleanza di centrosinistra richiede una legge elettorale maggioritaria, ma a quel punto sarebbe suicida non includere nella coalizione i 5S. Il proporzionale agevolerebbe il dialogo tra diversi con i 5S ma impedirebbe la formazione del polo di centrosinistra. Probabilmente la legge elettorale resterà quella che è. Ma è appunto una legge che, con la sua componente maggioritaria, impone coalizioni subito.