Nemmeno 24 ore dopo l’azzardo, Matteo Salvini ingrana una sgangherata retromarcia. Il viaggio in Russia? «Non è ancora detto che ci vada» e comunque il tour comprenderebbe anche una tappa a Kiev, da Zelensky. Ovviamente non si tratterebbe di una missione ufficiale: «Non vado a nome del governo ma rappresentando il sentimento della maggioranza degli italiani e se il viaggio non dovesse realizzarsi continueremmo a fare queste richieste a nome degli italiani». Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, però, non può accontentarsi della goffa ritirata: l’invasione di campo stavolta ci sta tutta ed è clamorosa. Dunque affonda la lama: «Il governo non sapeva niente ma queste vicende richiedono responsabilità da parte di tutti. Se si parla con Putin lo fa Draghi».

Le frecciate del ministro, come il gelo del collega Pd Lorenzo Guerini, «Non commento ipotesi improbabili», sono nell’ordine delle cose, sia perché si tratta di esponenti della parte politica opposta sia perché entrambi sono ministri e l’irritazione del governo di fronte a una simile improvvisata è inevitabile. Meno prevedibile la reazione dell’alleata di Salvini, Giorgia Meloni, che contende a Enrico Letta la palma della prima della classe quanto ad atlantismo. «Immagino che se Salvini fa una cosa del genere ne abbia parlato col governo di cui fa parte», esordisce candida e sorniona, sapendo benissimo che così non è. Poi bastona: «Bisogna fare molta attenzione a non dare segnali di crepe nel fronte occidentale. L’unico errore da non farsi è dare all’altra metà campo l’impressione che ci si può infilare nelle crepe del fronte avversario». Chissà se la leader di FdI si rendeva conto di stare ripetendo alla lettera il severo monito di don Vito Corleone al figlio Sonny nel Padrino…

LA SPIEGAZIONE dell’irritazione e del nervosismo che si sono effettivamente diffusi a palazzo Chigi e anche sul Colle per la trovata del leader leghista in realtà è lievemente diversa da quella denunciata dalla leader di Fratelli d’Italia. Il problema non sono tanto i vantaggi che Putin potrebbe trarre da una divisione nella maggioranza italiana della quale, per quel che conta, è di certo al corrente senza bisogno di ricevere Matteo Salvini. Il problema è l’immagine che rischia di rimbalzare nelle capitali alleate. La strategia di Mario Draghi si basa su un’immagine di allineamento assoluto alla strategia della Nato, a volte sin troppo calcata, per fugare ogni sospetto che l’Italia sia tentata dalla diserzione.

Proprio quell’allineamento consente allo stesso Draghi una certa libertà di movimento, per esempio sul fronte più nevralgico di tutti, quello della crisi alimentare e dello sblocco dei porti. Il quadro di un’Italia incerta, divisa e oscillante gli toglierebbe ogni libertà d’azione.

Si tratta comunque di una preoccupazione limitata anche perché la mossa di Salvini appare un passo alla cieca, non preparato, calcolato e studiato nei particolari. Piuttosto una trovata da comizio, estemporanea e confusa. Neppure la prospettiva del dibattito parlamentare che si terrà prima del Consiglio europeo del 23 giugno, il 21 al Senato e il giorno dopo alla Camera, preoccupa oltre il dovuto il capo del governo e quello dello Stato. Le sparate di Salvini, ma anche del leader pentastellato Giuseppe Conte, rispondono prima di tutto a una esigenza propagandistica, che si trasformerebbe però in un boomerang ove tirassero la corda sino a romperla davvero. Un margine di rischio però c’è perché Conte, pur volendo evitare una rottura con Letta, sul fronte della guerra assicura anche in privato di voler andare fino in fondo.

FORSE L’UNICA LEADER che in questo momento non si muove solo sul piano della propaganda è proprio Giorgia Meloni. Per lei la posta in gioco è molto più alta. Non si tratta di raggranellare consensi ma di dimostrarsi, in patria e fuori, tanto atlantista e fedele da far dimenticare ogni trascorso ex missino, populista e anti Ue. Il compito è arduo ma nessuno potrebbe accusarla di non provarci sul serio.