Dopo dieci giorni di crisi senza sbocco, si dubita della crisi: c’è o non c’è? Formalmente non c’è, perché Conte non si è ancora dimesso, malgrado Salvini – che neanche si è dimesso – abbia cercato di costringerlo. E abbia poi, di fronte all’intenzione del presidente del Consiglio di andare in parlamento, presentato una mozione di sfiducia e tentato di metterla ai voti tre giorni fa. Adesso proprio i suoi insuccessi, il non essere ancora riuscito ad aprire formalmente la crisi di governo, consentono a Salvini di tentare un recupero disperato e un po’ ridicolo: mantenere cioè in piedi l’alleanza gialloverde. E così ostacolare le trattative in corso tra Pd e 5 Stelle. Almeno sul piano della tattica, l’unico sul quale il ministro che voleva mangiarsi l’Italia riesce in queste ore a giocare (esemplare l’offerta-bluff sul taglio dei parlamentari). L’ampia finestra tra l’annuncio di rottura e la «parlamentarizzazione», che ci sarà – potrebbe esserci – martedì prossimo al senato, ha prodotto una crisi che somiglia ai decreti partoriti dal litigioso Consigli dei ministri dell’era Conte. È una crisi «salvo intese». E il presidente della Repubblica, di fronte a una situazione così confusa, ha deciso di lasciare anzitempo la Maddalena e tornare al Quirinale.

A questo punto il desiderio di Conte di restare in piedi e il tentativo di Salvini di tornare indietro potrebbero paradossalmente convergere nel senato del 20 agosto. Quando alle comunicazioni del presidente del Consiglio, che si annunciano dure con l’alleato che ha deciso (per poi negarlo) di «staccare la spina», seguirà dibattito. Conte dovrebbe dimettersi prima del voto di sfiducia, aprendo formalmente e finalmente la crisi e passando la regia a Mattarella. Ma potrebbe anche non farlo se la Lega si trovasse costretta a non affondare il colpo. Decisivo diventa l’atteggiamento che prenderanno i 5 Stelle, al momento spaccati tra la suggestione di capitalizzare il passo falso di Salvini all’interno di un rinnovato accordo con la Lega e la crescente tentazione di firmare un «contratto» tutto nuovo con il Pd. L’offerta che la Lega ha fatto a Di Maio di prendere in prima persona la guida del governo ha proprio l’obiettivo di mettere in difficoltà quelli che nel movimento hanno avviato i contatti con Zingaretti. La stessa tattica ispira l’ultima uscita del ministro dell’interno, che ieri ha garantito di essere pronto a votare il taglio dei parlamentari, «come abbiamo già fatto», significativamente, «a differenza del Pd». Ora però il bluff è caduto, ed è chiaro a tutti che la definitiva approvazione della riforma costituzionale e il voto in autunno non stanno insieme. Questa disponibilità della Lega, dunque, ha senso solo se la camera dei deputati arriverà a esprimersi sul taglio dei parlamentari, il 22 agosto. Solo, cioè, se Conte non si sarà nel frattempo dimesso.

Per Salvini, in definitiva, resta aperta una sola strada sicuramente vincente: quella di andare alle elezioni nella prossima primavera, dopo aver consegnato la difficile legge di bilancio a un governo di breve durata che può regalargli una facile campagna elettorale dall’opposizione. Potrebbe persino essere un Conte-bis, dal momento che il leghista ha dimostrato di poter fare l’opposizione anche al suo governo (e così lo stesso Conte, che adesso si «oppone» ai porti chiusi). Il taglio dei parlamentari, in fondo, è compatibile con questo scenario, perché se nessuno riuscirà a proporre il referendum – e il Pd che è decisivo in questo tentativo ha già fatto capire di non volerlo fare – i tempi tecnici per tornare al voto sono di non più di cinque, sei mesi. Votare con questa legge elettorale e con il 38% di parlamentari in meno da eleggere, oltretutto, favorisce moltissimo il primo partito. Cioè ancora la Lega.

Viceversa, per Zingaretti l’unico scenario conveniente è quello assai complicato di un governo di legislatura, costruito su un accordo ambizioso con i 5 Stelle e una sufficiente messa in discussione delle politiche che i grillini hanno condotto con (consentito a) Salvini. Tradotto, via Di Maio e via anche Conte. Ma soprattutto Di Maio. Nelle parole di Zingaretti: «No a qualsiasi ipotesi di governo pasticciato e di corto respiro. Solo nello sviluppo dell’eventuale crisi si potranno verificare, se esistono, le condizioni numeriche e politiche di un governo diverso che nasca non a tutti i costi per la paura delle urne, che non abbiamo, ma dalla reale possibilità di trasformare l’Italia». Molto difficile.