E adesso? Dopo l’imprevisto diretto al mento sparato dal Cavaliere, il nido delle colombe è un formicaio impazzito. I «governisti» non sanno cosa fare, e lo si percepisce a pelle. Più che una corrente dotata di una strategia comune, il loro sembra un drappello scomposto in cui ciascuno dice la sua a casaccio e senza consultarsi col vicino.

Roberto Formigoni, che tra i morbidi è un durissimo, reclama il voto segreto al Consiglio nazionale, giusto per farsi bersagliare dai niet dei duri, che sanno di avere la maggioranza e a metterla anche solo minimamente in pericolo non ci pensano per niente. «Poteva pensarci quando è passato il voto palese sulla decadenza di Berlusconi. Lo statuto del Consiglio nazionale di voti segreti non parla», sibila Renata Polverini, ma gli altri insistono. «Come fa il Pdl a dire di no?», cinguetta Naccarato.

Fabrizio Cicchitto, che si è bruciato i ponti alla spalle e si gioca tutto, prova a suggerire la controffensiva frontale: «Abbiamo tutto il tempo per decidere se disertare o meno la riunione del Consiglio nazionale. La crisi di governo sarebbe un autogol». Qui, a rintuzzare per tutti, è un’altra vestale del berlusconismo, Anna Maria Bernini: «Minacce irricevibili».

Disertare le assise del 16 novembre vorrebbe dire scissione, e un conto è vagheggiare un passo del genere quando non si ha più nulla da perdere, come nei casi di Formigoni e Cicchitto, tutt’altra sceglierla mettendo nel conto il salatissimo prezzo. Così persino Gaetano Quagliariello, il più governista del bigoncio, si scopre diplomaticissimo: «L’accordo con Berlusconi era a un passo, ma ora vogliono farlo saltare per farci fare la fine di Gianfranco Fini. Però noi non rinnegheremo mai Silvio, non saremo mai centristi». E la compagna di governo Nunzia De Girolamo fa coro: «Sono ero e sarò con il presidente Berlusconi». Alla fine è Maurizio Lupi, mentre le colombe sciamano verso lo studio di Quagliariello alla ricerca di una linea con la quale fronteggiare l’offensiva finale dei rivali, a sgomberare il campo da proposte kamikaze: «Quando si lavora seriamente, riconoscendo la leadership di Berlusconi, per l’unità del partito non si pensa a disertare». Dunque meglio giocarsela come usa nei congressi dei partiti normali: sulla sfida tra mozioni. I governisti giurano che in calce al loro documento ci sono già 312 firme. Sostengono di controllare sei regioni fondamentali, tra cui Lombardia e Sicilia. L’obiettivo è, se non raggiungere la maggioranza, almeno dimostrare una forza tale da obbligare Berlusconi alla mediazione sui due punti fondamentali che figurano nel loro documento: mantenere il sostegno al governo anche dopo la decadenza del sovrano e nominare non uno ma due coordinatori, in modo da mantenere almeno per metà la gestione del partito.

Perché tutti stanno con Berlusconi, tutti sono pronti a giurare che per mettere nuove tasse Letta dovrà passare sui loro corpi, ma nessuno è disposto a far cadere il governo per vendicare il capo trucidato. Tanto più che per Alfano quella cacciata del re dal Senato rappresenta un’occasione d’oro, o almeno lui ne è convinto. Dopo quel voto, i giochi saranno chiusi davvero. Ma fino a quel momento di spazio ce ne è ancora e Angelino Alfano è determinato a non lasciare nulla di intentato per evitare di dover prendere la decisione più sofferta. Gli intimi assicurano che sta cercando la formula magica per riportare il capo furioso a più miti consigli. Martedì sera c’era quasi riuscito: perché non provarci ancora? Se al Cn la metà o quasi delle assise si rivelasse dalla sua parte, Berlusconi non potrebbe non tenerne conto. E Alfano, con le spalle al muro, spera nel miracolo.