Le regole della caccia alla volpe interessano perlopiù i signori che la praticano. E, suo malgrado, la volpe. Difficile immaginare che un intero popolo vi si possa appassionare.
Altrettanto lecito è dubitare che gli italiani fremano per i dispositivi e le norme di quella nuova legge elettorale che i media pongono ripetutamente e quotidianamente al vertice delle loro più impellenti aspirazioni.
Assai più probabile è che desiderino presto un qualsivoglia risultato per non sentirne parlare più e passare ad altro.
Del resto, già il latino maccheronico correntemente impiegato nel designare le diverse leggi elettorali è indice dell’atmosfera provinciale e comicamente liturgica in cui tutto il dibattito si svolge per partorire, alla fine, qualcosa di assai simile al già noto. Laddove in questione sono assai meno le forme della democrazia che non la distribuzione delle risorse di potere tra forze politiche in disastrosa crisi di senso e di rappresentanza.

Le argomentazioni che i maggiori costituzionalisti italiani hanno opposto al progetto di legge concordato da Renzi e Berlusconi non potrebbero essere più sensate. Ma si tratta di un esercizio di razionalità politico-giuridica che difficilmente potrà incidere su una storia già ampiamente scritta, non solo in Italia e non da ieri. Converrà allora risalire alle spalle dell’ingegneria normativa che infesta le prime pagine per collocare lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa nel contesto, sempre più decisamente postdemocratico, che gli è proprio.

La parola chiave da cui si deve partire è «governabilità». Non risale alla notte dei tempi, ma agli anni ’80, per poi celebrare il suo trionfo con il passaggio dal proporzionale al maggioritario nel 1993. Lungi dal rappresentare un concetto tecnico-giuridico il principio della «governabilità» è di natura strettamente e squisitamente politica ed è anche piuttosto semplice: consiste nel mettere i governanti al riparo dai governati, almeno per il tempo che intercorre tra una scadenza elettorale e l’altra. Ed è talmente pervasivo, in questa sua semplicità, da potersi applicare a uno stato nazionale, a una fabbrica, a una università, a un sindacato (lo sa bene il segretario della Fiom Maurizio Landini nel condurre la sua battaglia per la democrazia sindacale), in breve a qualsivoglia organismo collettivo, con diversi gradi di potere disciplinante e di durata. Ed effettivamente a tutte queste realtà è stato in diversa misura applicato.

Questa prerogativa del comando consiste in primo luogo nell’escludere la possibilità stessa delle «crisi di governo» e cioè l’eventualità che di fronte all’esplodere di contraddizioni sociali e politiche il quadro governativo si trovi costretto a scomporsi e ridisegnarsi.
La «governabilità» garantisce invece che, per il tempo privo di incertezze del suo mandato, la maggioranza parlamentare e il suo governo possano esercitare il più pieno arbitrio senza mettere a repentaglio la propria stabilità. Una tendenza alla facilitazione del comando, o riduzione della complessità come la chiamavano i teorici più raffinati, che nessun bilanciamento istituzionale, e men che meno la corruttibile «libertà di coscienza» dei rappresentanti, potrà più rimettere in questione.

Governi, è ovvio, ce ne sono sempre stati, anche nelle fasi di maggiore instabilità (che sovente corrispondevano a quelle di maggiore sviluppo), soggetti, tuttavia, a quella necessità di adattamento alla turbolenza dei governati che il principio di «governabilità» intende radicalmente rimuovere.
La crescita costante dell’astensionismo è il segno più evidente del diffondersi del senso di impotente distanza da parte dei governati e, nei casi meno rassegnati, di ostilità, che la blindatura del quadro politico determina.

Ma «governabilità» è anche la bandiera dei partiti maggiori, i quali rispondono alla stessa logica delle grandi concentrazioni economiche impegnate nella competizione entro un orizzonte comune. Questo orizzonte comune o «regola condivisa» non è che la dottrina della competitività liberista nonché la pretesa a una libertà di azione che non ammette vincoli né discussioni. Quando si dice che l’economia domina la politica, si intende soprattutto che la seconda si ridisegna secondo gli schemi e le forme della prima. Ed è esattamente quello che i grandi partiti monopolistici stanno facendo nell’approntare le condizioni normative che rendano possibile questo adeguamento. Senza troppo discostarci dalla realtà potremmo considerare le primarie come una assemblea degli azionisti, la direzione politica come un consiglio di amministrazione, il segretario come un amministratore delegato e le elezioni politiche come la competizione su un mercato che non lascia più spazio agli outsiders o alle piccole imprese più o meno artigianali.

È questo carattere postdemocratico dell’ordine liberista, e il riconoscimento comune delle regole che vi presiedono, ciò che nella sostanza sottende l’accordo tra il Pd di Matteo Renzi e la rinata Forza Italia di Silvio Berlusconi. Così come i listini della Borsa anche il duopolio politico non prevede «alternativa», ma solo alternanza delle rispettive quotazioni sul mercato. La nuova legge elettorale costituisce un efficace adeguamento della politica a questo schema. Le «larghe intese», che si pregia di aver superato per sempre, non erano in fondo che una applicazione diversa di quello stesso dogma della «governabilità» ad ogni costo che essa sancisce nella dottrina dell’alternanza. Nell’un caso e nell’altro si tratta di cancellare la conflittualità sociale dalla vita collettiva.

La dimensione postdemocratica è ciò che sempre più accomuna il governo dell’Europa a quelli dei singoli stati che la compongono e che contribuiscono in maniera decisiva a ostacolarne l’evoluzione politica e conservarne la rigidità tecnocratica. Non c’è da aspettarsi alcuna democratizzazione dell’Unione da parte di sovranità nazionali alle prese con la riduzione dei propri spazi democratici interni.
Semmai il contrario, secondo la generosa e azzardata ipotesi di Etienne Balibar che auspica un’Europa più democratica di tutti gli stati che la compongono.

È solo su questa scala che un movimento politico e un concorso di forze che parlino una lingua diversa dal latino maccheronico potrebbero rovesciare la «regola comune» cui i nostri monopolisti politici, nazionali e sovranazionali, vorrebbero piegare le società europee.