I luoghi tornano a popolarsi di storie nel racconto fotografico di Gosette Lubondo (Kinshasa, Repubblica Popolare del Congo 1993, vive e lavora a Kinshasa), giovane talento che nel 2017 ha vinto la residenza fotografica al Musée du quai Branly – Jacques Chirac, durante la quale ha realizzato la serie Imaginary Trip II (2017-2018) entrata nelle collezioni del museo parigino ed esposta nella collettiva À toi appartient le regard et (…) la liaison infinie entre les choses (2020).

Un transitare che porta avanti e indietro, sollecitando una parte emotiva che è personale e collettiva. Lubondo ha in mente un nuovo progetto a Gbadolite, nell’ex villaggio dove è nato Mobotu, in cui l’eredità coloniale si confronterà con il presente; intanto, le sue fotografie con la Galerie Angalia sono state presentate sia al Grand Palais Éphémère nella sezione Curiosa di Paris Photo 2021 (è anche nello stand del Prix Maison Ruinart) che alla VI edizione di Akaa – Also Known As Africa, la prima fiera africana di arte contemporanea & design.

Qual è l’esigenza di lavorare sulla memoria in rapporto agli spazi vuoti, abbandonati?
Negli spazi vuoti posso immaginare il passaggio della gente, come quando di una scritta su un muro penso alla persona che l’ha potuta scrivere. È come se mi riappropriassi dei ricordi e delle energie che appartengono a quelle «assenze».

Per la prima serie «Imaginary Trip» (2016) il soggetto scelto è una vecchia carrozza del treno in disuso nella stazione di Kinshasa…
Cerco dei posti che hanno un legame con il ricordo di tanta gente, ma anche con la storia del mio paese. Imaginary Trip II parla, prima di tutto, dell’esperienza di un viaggio. Poi ho cominciato a riflettere sul concetto del lavoro, trovando molto interessante focalizzarmi su un determinato luogo che ha dei forti legami con la comunità. È un processo che mi porta ad andare ad abitare questi posti abbandonati per ricreare delle affinità e rimandi che sono sì legati al passato, ma non limitati solo a questo. Mi permettono d’immaginare una possibilità di futuro e di una nuova vita.

Le fotografie non hanno mai colori esasperati…
Uso la fotografia a colori perché traduce qualcosa della storia che voglio raccontare. Nelle foto della scuola – Imaginary Trip II – c’è come un filtro che dà sul giallo. Per me è molto importante riuscire a riportare quello che vedo nella maniera più fedele possibile. Molto spesso quando si pensa alle fotografie africane si visualizzano immagini molto colorate e forti, ma non mi sento obbligata a rispondere a questa visione, voglio rendere quello che vedo realmente.

Anche l’aspetto seriale è importante nel suo lavoro…
La serie mi permette un’affabulazione, narrare una storia attraverso le immagini. Ma nelle mie foto c’è solo l’inizio di una storia, mai la fine.

Qual è la valenza di inserire anche se stessa all’interno del lavoro?
All’inizio non era previsto. Nella serie del treno dovevano esserci delle persone ma, essendo all’inizio della mia carriera, non avevo soldi per pagare i modelli e mi sono ritrovata da sola. Allora sono passata davanti e dietro l’apparecchio fotografico. Però mi sono subito accorta che il fatto di avere due ruoli differenti mi permetteva una grande libertà. Non lo considero un autoritratto, nel senso che non fotografo per me stessa. È una specie di performance in cui immagino di farmi raccontare delle storie e mi metto nei panni di quei personaggi di cui ho sentito parlare. Questa «azione» mi permette di connettermi con lo spazio.

C’è anche un approccio molto emotivo…
Sì, c’è molta emozione ma l’ho scoperto solo la prima volta che l’ho fatto. Forse dipende anche dal mio essere una persona nostalgica. A volte, lo sono anche per qualcosa che non ho vissuto personalmente. Mio padre è fotografo e sono cresciuta vedendo tanti ritratti in bianco e nero di persone che non ho mai conosciuto e di luoghi che non ho mai visto. Quando ero piccola, mi chiedevo chi fossero quegli individui o quei luoghi. È questo che continuo a perseguire anche oggi nelle mie serie Imaginary Trip: mi riconnetto nuovamente a tutto ciò che non ho vissuto.

Quanto è stata importante nella sua formazione – studi di comunicazione visuale all’Accademia di belle arti di Kinshasa – la confidenza con il mezzo fotografico attraverso il lavoro di suo padre?
Mio padre, Gaston Diakota, è un fotoreporter, un fotografo di matrimoni e un ritrattista. È quello che ha fatto per tutta la vita, a partire dal ’68. Lo fa ancora oggi che ha 71 anni con il suo studio a Kinshasa che si chiama Photo Gaga. Io sono la più piccola di quattro figli e sono cresciuta in quell’universo in cui non si faceva altro che guardare le fotografie. Non sapevo che sarei diventata una fotografa, ma qualcosa è scattato in me. È stato lui, poi, a regalarmi la prima macchina fotografica. Chiese a me e a mia sorella di realizzare un reportage di una festa per sole donne, ma io ho tenuto l’apparecchio e quando mio padre ha capito che mi piaceva fotografare mi ha insegnato le basi. Se gli capitavano due lavori insieme, coglieva l’occasione per mandare me a fotografare. Dal 2007 a oggi, ho sempre tenuto una macchina fotografica in mano.

Il racconto di «Imaginary Trip II» si svolge all’interno di una scuola creata nel 1936 dai missionari cristiani. Un luogo abbandonato dopo il fallimento della statalizzazione di Mobutu con l’esodo rurale, ma di cui le hanno sempre parlato i suoi genitori…
Sì, conoscevo l’esistenza dell’Ecole Centrale, nel villaggio Gombe Matadi, nella regione del Congo Centrale, attraverso le parole dei miei genitori. Questa scuola riuniva i bambini di tutti i villaggi, arrivando ad avere anche 500 allievi. I miei genitori provenivano da due villaggi diversi, sono stati loro ad esortarmi a visitare questo luogo che poteva essere significativo nella cornice della mia ricerca sulla memoria. Quando ci sono andata mi sono subito resa conto che effettivamente era un luogo che risuonava in me.