Entrando nel cortile antistante la Royal Academy of Arts di Londra ci accoglie il monumento in bronzo del suo primo presidente, il pittore Sir Joshua Reynolds. È in piedi da circa novant’anni e ci sovrasta con gesti ampi e risoluti. Col pennello nella mano destra e nella sinistra la tavolozza sembra dipingere l’aria, e a distanza di qualche metro incombe sull’Iron Baby di Antony Gormley, una minutissima scultura in ferro del 1999. Lasciata temporaneamente a terra e a portata delle nostre scarpe quest’opera sconcerta non solo per ciò che raffigura (un neonato visto di spalle e rannicchiato sul pavimento freddo) ma anche per il soggetto insolito per Gormley, che ha fatto della propria figura l’oggetto esclusivo della rappresentazione umana. Questo Iron Baby, modellato sul corpo della figlia dell’artista a sei giorni dalla nascita, colpisce per la vulnerabilità intrinseca al soggetto e allo stesso tempo per la forza simbolica che ne emana: una vita nuova che si impone a noi come un immenso enigma. Se non ci sfugge il senso che Gormley dà alla materia del ferro come «terra concentrata», possiamo allora pensare che questa piccolissima scultura sintetizzi in sé l’impasto di tutte le questioni che assillano l’artista da tempo, e che ha voluto portare fino al 3 dicembre nelle sale della Royal Academy: il corpo, il suo spazio, la condizione del divenire, il posto dell’uomo nella natura e nel mondo che ha creato intorno a sé.
I quattordici «Slabworks»
In opposizione alla delicata figura di neonato, nella prima sala Gormley presenta 14 Slabworks, forme umane composte di parallelepipedi a grandezza variabile. Seppur in posizioni statiche (in piedi, appoggiati alle pareti, distesi o rannicchiati per terra), essi sembrano venire da un possibile sviluppo delle vivaci figure cubiche di Luca Cambiaso. La loro posa definisce lo spazio occupato dal corpo, o meglio il «luogo del corpo», come lo definisce Gormley. Gli Slabworks, infatti, descrivono il corpo non in termini di carne e ossa, ma, come nel linguaggio delle costruzioni, in chiave di logica strutturale, di pesi e contrappesi, e suggeriscono l’idea che siamo il corpo che abitiamo. Sono corpi, questi di Gormley, che di primo acchito non fanno pensare a nulla di buono, così estranei come gli assemblati standard che li compongono, e così precari come l’equilibrio che li sorregge. Infine, a osservarli più attentamente, dischiudono un senso di commossa partecipazione alla condizione umana.
La Slade School of Fine Art
La terza sala è consacrata alle opere giovanili. Sin dall’inizio della sua carriera, cominciata alla Slade School of Fine Art (1977-’79), Gormley indaga i principi stessi del fare scultura. Studia la natura dei materiali più vari (pietre, piante, alimenti) per sondarne il potenziale e cercare il modo migliore per manipolarli e trasformarli. Il piombo, leggero e malleabile, ha per primo affascinato l’artista: ne fa la seconda pelle di oggetti che una volta nascosti divengono forme cancellate dal mondo ma presentate come nuove, come idee da ripensare. Le forme organizzate in serie o create attraverso azioni ripetute rivelano l’interesse di Gormley per il tema dell’espansione potenziale nel tempo e nello spazio. Negli anni ottanta (anni in cui l’artista ha già maturato una profonda visione buddista e un’attenzione particolare per l’alchimia) il corpo umano comincia ad apparire nel suo lavoro e si presenta come vuota sagoma, come presenza assente, o come fulcro di energia che si espande nello spazio.
Spazio che viene continuamente sollecitato e provocato da Gormley il quale, forzandone i limiti, ne invèstiga il senso. Come accade nel caso del tubolare di 8 km in alluminio che compresso nella sala appare come un ciclopico gomitolo di linee o un enorme scarabocchio realizzato in aria. Clearing, questo il titolo dell’opera, crea archi senza inizio né fine la cui energia si irradia in moto continuo tra pavimento, pareti e soffitto. È un campo dinamico disegnato nello spazio che in qualche modo intrappola il visitatore costretto a farsi largo in questo elastico groviglio divenendo così parte di esso. E questa continuità di corpo e spazio, di interno ed esterno, viene giusto a materializzarsi nell’idea che soggiace alla scultura Subject, in cui una figura umana è rappresentata da segmenti di sottili barre di acciaio che si intersecano, apparentemente senza un supporto strutturale. La staticità e la porosità dell’opera di Gormley fuga ogni possibile rapporto con le Forme uniche della continuità nello spazio di Boccioni. Eppure la sua silente dinamica sembra attraversare in modo non meno efficace il dentro e il fuori di questa impassibile gabbia umana.
A rendere più dialettico il rapporto con la «gabbia» è l’enorme opera sospesa sulle nostre teste fatta di interconnesse griglie tridimensionali che va sotto il nome di Matrix. Anche essa, come Clearing, è un disegno nello spazio, dove l’armatura al centro delle fittissime griglie misura un’unità d’abitazione, una camera da letto che mediamente oggi viene costruita in Europa. Attraverso le sottili armature che si dilatano da questo spazio centrale, Gormley suggerisce non solo l’angusto mondo in cui viviamo, ma anche la possibilità della mente umana di superarlo. Così seguendo i lunghi cavi di acciaio di Co-ordinate (uno verticale che va dal pavimento al soffitto e due perpendicolari che percorrono orizzontali gli spazi espositivi) vediamo plasticamente rappresentata la forza geometrica delle linee in tensione, il cui senso di infinito ci è dato esattamente nel punto della sua scomparsa nel muro. Idealmente una di queste linee si prolunga nel gruppo di sculture di Lost Horizon, dove avviene un ulteriore capovolgimento di fronte: il calco in ferro di Gormley viene replicato in piedi su tutte le superfici della sala sfidando la gravità e la perdita d’orizzonte del visitatore.
Martin Caiger-Smith, splendida cura
In questa mostra, splendidamente curata da Martin Caiger-Smith, si dà anche ampio riscontro al lavoro grafico di Gormley. Il suo rapporto ancillare con la scultura è evidente, anche se in alcuni disegni si conserva un certo grado di autonomia espressiva. In essi, data la loro piccola scala, meglio si può osservare l’intuizione poetica dell’artista, i cui temi come la presenza e l’assenza, il corpo e la terra, ma anche il corpo e lo spirito, la luce e l’oscurità sembrano essere ben compendiati nel lavoro Cave. Qui delle celle di acciaio poggiate a cascata l’una sull’altra creano un corridoio come un antro che induce il visitatore che lo attraversa ad acuire i sensi e a percepire in modo diverso lo spazio esterno e interno al proprio corpo.
All’uscita da esso Gormley ha posto per terra dei pezzi di creta che ricomposti insieme modellano due sagome umane. A differenza degli Slabworks visti nella prima sala essi hanno un sapore più arcaico come di resti di epoche remote. Il ritorno recente alla creta ricorda i lavori dell’artista prima della svolta degli anni ottanta, e si inserisce in un contesto di disegni realizzati con la terra quale pigmento simbolico utilizzato sin dalla preistoria. Questo ritorno alla materia primordiale chiude la traiettoria dell’esposizione londinese con l’opera Host. Il pavimento della sala delle conferenze della Royal Academy è completamente cosparso di terra rossa e acqua dell’Atlantico. Questa incongrua occupazione del suolo da parte di un estraneo materiale organico chiude e sfida un’esposizione giocata perlopiù sul filo dell’alta tecnologia messa al servizio della modificazione percettiva di ambienti e strutture architettoniche. Per Gormley Host è «il fuori portato dentro», la tabula rasa necessaria a una rappresentazione della vita primigenia e al mondo prima della sua attuale, irreparabile trasformazione.