Dopo cinque anni, il Giro d’Italia riparte. È il 1946 e le biciclette sfilano tra rovine e cantieri, strade sterrate e ponti di barche oltre i fiumi: si prova a ricominciare dopo tanti spaventosi anni di guerra. La dodicesima tappa prevede un percorso pianeggiante, senza difficoltà particolari, da Rovigo a Trieste. Ed è qui che il Giro non è più solo sport.

In Venezia Giulia le tensioni sono ancora forti, la guerra è finita ma la faglia che divide contrapposti nazionalismi e idologie sembra continuare ad allargarsi e ogni occasione è buona per alimentare lo scontro. A Trieste e in tutto il territorio intorno, governano gli anglo-americani mentre a Parigi le potenze alleate sono riunite per decidere la sorte di quei martoriati confini. Il piano di Bidault prevede l’internazionalizzazione della città e del territorio da Duino a Cittanova d’Istria/Novigrad: sono tutti d’accordo, gli americani escludono si possano percorrere strade diverse e anche il più restìo, il russo Molotov, proprio in quei giorni si allinea alla soluzione comune. Territorio libero e internazionale, si tratta solo di definire una forma di governo condivisa.

Il governo militare alleato, annusando l’aria, chiede di annullare la tappa, di non far arrivare il Giro a Trieste, ma gli organizzatori fanno finta di non sapere o forse qualcuno sa bene di avere in mano un’ottima occasione. Già a commento della prima tappa, vinta inaspettatamente a Torino dal triestino Giordano Cottur, la Gazzetta dello Sport aveva scritto: “Oggi non abbiamo che un nome sulle labbra e nel cuore: Giordano Cottur che a un “no” per Trieste elaborato ai tavoli delle caute diplomazie, risponde con un “si” a tutti gli sportivi italiani”.

Quando il 30 giugno 1946 la carovana del Giro entra nella zona amministrata dagli anglo-americani, il percorso diventa difficile, arrivano pietre, la strada è interrotta. Vicinissimo a Monfalcone, a pochi chilometri da Trieste, blocchi di cemento, bidoni di catrame, filo spinato sulla carreggiata, tanta gente e una pioggia di volantini, sassi, puntine e chiodi. “Il Giro d’Italia non passa nelle terre di Tito!” si dice sia il grido. I corridori si fermano, si buttano a terra, cercano riparo nei fossi, tra le macchine, dietro la polizia militare anglo-americana che spara in aria, qualcuno forse risponde. Questa, almeno, la drammatica versione che gira l’Italia, con un distinguo de l’Unità che, citando peraltro il comunicato ufficiale della giuria di gara, parla di una sassiola partita contro una macchina del seguito che aveva issato una grande bandiera italiana e di una giornata resa pesantissima da voci messe in giro da provocatori determinati a “imbastire sulla manifestazione sportiva una speculazione politica”. Non tanto diverso quanto riporta il quotidiano pubblicato a Trieste dal Governo militare alleato che limita il tutto a un gruppetto di contestatori subito disperso.

Il Giro del 1946. @Cyclomagazine

Comunque a Pieris la tappa viene dichiarata conclusa, si ricomincia domani da Udine, e il gruppo se ne va in auto verso il Friuli. Tranne un manipolo di triestini: la squadra messa assieme per l’occasione si chiama Wilier Triestina e gira voce che quel nome voglia significare W l’Italia Libera e Redenta anche se in realtà è il nome della ditta che la sponsorizza; le maglie sono rosse con l’alabarda sulla schiena, come il vessillo triestino, e il gruppetto ha la ferma determinazione di arrivare a Trieste in bici. Scortati dall’esercito anglo-americano, trasportati in camion fino alle porte della città, i pochi riprendono a pedalare per gli ultimi chilometri ma entrano a Trieste da nord, fino all’Ippodromo che è in un rione di periferia. Primo, ma è solo una vittoria simbolica, Giordano Cottur e dietro, naturalmente, altri due della Wilier. Le foto di Cottur fanno il giro dei giornali italiani, “Da oggi è la Venezia Giulia maglia rosa, è Trieste la maglia rosa dell’italianità” titola la Gazzetta dello Sport.

A Trieste l’incidente di Pieris, più o meno amplificato, fa scoppiare scontri duri: gruppi di “italianissimi” devastano librerie, cartolerie, trattorie gestite da sloveni, la sede dei Sindacati Unici, l’Associazione dei partigiani giuliani, aggrediscono la tipografia e la sede de il Lavoratore e incendiano le copie del giornale. L’unione antifascista italo-slovena proclama lo sciopero generale e subito, per contrappeso, il Comitato guliano di liberazione nazionale invita anch’esso ad uno sciopero di protesta per il mancato arrivo del Giro a Trieste. Trieste è paralizzata, gruppi contrapposti si scontrano nelle strade, la polizia militare anglo-americana cerca di sedare le risse e disperdere le persone ma scontri e accoltellamenti continuano. Il bilancio, dopo due giorni, è drammatico: due morti e quarantacinque feriti. Ma non ne parla nessuno, l’Italia continua a seguire il Giro ignara. Soltanto su l’Unità e sul Giornale Alleato compare un resoconto di quei giorni triestini. La Gazzetta dello Sport si ferma alla “fulgida giornata di passione” che ha visto il Giro accolto da “una folla delirante di triestini” e si mantiene coerente fino all’ultimo giorno: quando il Giro passa il traguardo finale a Milano scrive “Il Giro d’Italia ha fatto il suo dovere. E’ andato a trovare gli italiani… Il Giro doveva andare a Trieste, proprio nei giorni estremi di un dolore estremo, per recare alla sorella in pericolo la prova della solidarietà disperata di tutti i fratelli italiani.”