Gore Vidal era l’ultimo, illustrissimo superstite di quella generazione americana di scrittori/celebrità (da Truman Capote a Norman Mailer) riconoscibile e amabile da chiunque, anche senza aver mai letto una sola riga. Gioco fin troppo facile per Nicholas Wrathall e il suo documentario Gore Vidal: The United States of Amnesia? Assolutamente no anche perché riassumere in 90 minuti l’opulenza vitale dello scrittore non è impresa così semplice. Fiore all’occhiello della sezione The Outsiders del Milano Film Festival, la replica domenica 15 al Teatro Strehler, il film di Wrathall, scandito dagli ormai classici aforismi vidaliani e zeppo di straordinario materiale di repertorio, cesella alla perfezione le complessità del Vidal essere umano, scrittore e uomo politico, le sue innumerevoli contraddizioni (da candidato supporter a detrattore della presidenza Kennedy), la sua vita scissa fra Europa e America.

. Dopo qualche anno di purgatorio come autore televisivo, prima Hollywood, sue le sceneggiature – anche se spesso non accreditate- di [do action=”citazione”]Narratore al vetriolo e innovatore linguistico, a soli 22 anni Vidal abbandona la rassicurante famiglia borghese (nonni senatori e padre aviatore) e con La statua di sale, esordisce spiazzando la puritana America[/do]Ben Hur, Improvvisamente l’estate scorsa, L’affare Dreyfuss, poi le stanze del potere kennedyano e i salotti blasonati, lo lanciano senza paracadute nel panorama culturale statunitense, stregato da quel corpo aristocratico tanto simile ai senatori romani così frequenti nella sua letteratura, e nel parallelismo fra Impero Romano e «Impero Americano».

Nel frattempo i romanzi fioccano di originalità, satira, oltraggi (il trionfale Myra Breckinridge) ma Vidal sceglie a sorpresa l’Italia, stabilendosi nella Capitale e il perché lo spiega lui stesso in un’onirica sequenza di Roma di Federico Fellini «Roma è la città delle illusioni: la Chiesa, il Governo, il Cinema e quale posto migliore di questa città, nata e risorta tante volte, per aspettare la fine?». Il tentacolare genio di Gore continuerà a fagocitare alto e basso, politica e becerume, saggi sul declino del colosso americano e apologie dei lustrini anni 80. Un outsider privilegiato, una personalità politica, sociale e culturale fedele al bisogno di verità, soprattutto storica, che diventa una sorta di ponte ideale con le necessità d’investigazione contemporanee della sezione Colpe di Stato, curata da Paola Piacenza, nove documentari da tutto il mondo fieramente selezionati per raccontare quello che oramai fatica troppo a trovare spazio nei media internazionali.

Dalla teoria sui danni collaterali del capitalismo americano di Inequality For All di Jakob Kornbluth, in programma domani e domenica, dove un economista, ex segretario di Clinton svela con verve da consumato showman le traumatiche condizioni della middle class americana, alla viva e vera voce di due aguzzini e un sopravvissuto di un campo di prigionia in Corea del Nord di Camp 14. Total Control Zone di Marc Weise, incubo di arcaica memoria che documenta con orrore le barbarie indicibili di una nazione.

Grande attesa, domani e domenica, per il pluripremiato The Act of Killing di Joshua Oppenheimer, capace di spingersi in territori eticamente scivolosi, dove neanche Werner Herzog e Errol Morris, produttori esecutivi, si erano mai addentrati: filmare i carnefici, paramilitari e gangster, che contribuirono alla metà degli sessanta alla salita al potere in Indonesia di Suharto, massacrando oppositori politici o presunti tali, che ricostruiscono fieramente le azioni di cui si erano resi responsabili e per merito delle quali sono acclamati come eroi nazionali, torture comprese. Oppenheimer riprende la lavorazione del film che dovrebbe eternare le loro gesta, dando luogo a un cortocircuito filmico che si trasforma una sorta di anti-Mondo movie, una vertiginosa riflessione sulla banalità del male, sulla responsabilità dello sguardo e sul potere del cinema nel modellare la percezione di se e della Storia.