Gordon Matta-Clark ritorna a essere al centro del dibattito con un libro e una mostra. A Parigi al Jeu de Paume va in scena Gordon Matta-Clark. Anarchitect, a cura di Antonio Bessa e Jessamyn Fiore, dove vengono presentati i lavori per il Bronx: i graffiti, il taglio del Pier 52, i Bronx Floor, e un omaggio alla città francese con Conical Intersect (1975), un taglio circolare nella facciata di una casa, come un grande occhio da cui traguardare la sagoma in costruzione del Pompidou. E poi c’è il libro Cutting Matta-Clark. The Anarchitecture Investigation, scritto da Mark Wigley con l’ambizione di scoprire nuovi e inediti documenti attraverso una indagine negli archivi del Centre Canadien d’Architecture, depositario di lettere e disegni, e dell’Estate of GMC che raccoglie le fotografie, unica testimonianza, insieme ai film, dell’opera dell’artista. L’intento di Wigley è investigare la nascita dell’Anarchitettura partendo dalle parole che Matta scrive sulle postcards: «Anarchitettura è fare spazio senza costruirlo. Anarchitettura aggiunge una nozione di eventi non materiali…l’Anarchitettura é più vicina al perfetto gioco di vuoti».

DI FATTO l’Anarchitettura furono in molti a praticarla, basti pensare ai Site di James Wines, gli Archigram, fino al gruppo che nel 1966 a Firenze fondò l’Architettura Radicale, tra cui figura l’artista, laureato in architettura, Gianni Pettena. Autore del libro L’anarchitetto, edito da Guaraldi nei primi mesi del 1973, Pettena viene escluso dalle ricerche degli studiosi sulla anarchitettura di Matta-Clark. Laureatosi in architettura alla Cornell University, nel dicembre del 1973, dopo l’uscita del libro di Pettena (che conosceva, come anche Wigley documenta), Matta Clark fonda l’Anarchitecture group (Laurie Anderson, Joel Fisher, Tina Girouard, Susan Harris, Gen Heighstein, Bernard Kirschenbaum, Richard Landry, Max Newhous, Richard Nonas, Alan Saret) anche se solo nel 1974 si palesa con la mostra del gruppo nel suo ristorante newyorchese Food.

WIGLEY EVIDENZIA come la storiografia di matrice anglosassone sia concentrata unicamente sul soggetto della ricerca, senza considerare il contesto culturale, politico e artistico all’interno del quale si muove Matta-Clark. In questo modo si nota una profonda differenza di metodo negli studi storici che gli italiani attuano e che derivano dalla matrice umanistica, cercando quelle interrelazioni tra artisti, opere e contesto in un continuo passaggio dal dettaglio all’insieme. L’opera di Pettena prende forma proprio in America supportata anche da Artforum. Dal 1971 al 1972, a Minneapolis e Salt Lake City, sperimenta il suo linguaggio anarchitettonico attivando nuovi comportamenti spaziali. Pettena e Matta-Clark operano una de-costruzione dell’architettura, anticipando Gehry, Hadid e Tschumi, rompendo così tutti i limiti e configurando un nuovo linguaggio.

MATTA-CLARK agisce con i suoi tagli sulle facciate e nei pavimenti per sottrazione di materia, creando nuove forme architettoniche, mentre Pettena accumula materia: con il ghiaccio nelle Ice Houses a Minneapolis (1971), con la creta nella Clay House a Salt Lake City (1972). Entrambi trasformano spazialmente le architetture anonime americane con un gesto anarchico contro la debordante presenza della tradizione architettonica. Il rapporto tra i due è rafforzato non solo dalla de-strutturazione del linguaggio, bensì dall’usare fotografia e film in 16mm come unici racconti dello svolgimento delle loro performance. Matta-Clark nell’intervista rilasciata a Donald Wall di Arts Magazine (1976), precisa la sua distanza dalla Earth Art dove definisce l’Earth artist come colui che agisce su una tela bianca, «ho scelto di non isolarmi dalle condizioni sociali, ma di trattare direttamente con le condizioni sociali sia per le implicazioni fisiche, come nella maggior parte dei miei lavori, sia attraverso un coinvolgimento più diretto della comunità…Penso che le differenze nel contesto urbano siano la mia preoccupazione principale e siano una grande separazione dall’Earth Art».

Anche Pettena rifiuta la Earth Art nel dialogo con Robert Smithson pubblicato su Domus: «Non ho il diritto di toccare un’area naturale-afferma- e anche una vecchia miniera [luogo caro a Smithson] in disuso è un posto dove la natura ha operato una rilettura secondo il suo linguaggio, e me l’ha sottratto».