Con un accordo mai reso pubblico, Google ha acquistato un pacchetto di dati relativi alle transazioni finanziarie offline dei clienti Mastercard. Le informazioni ottenute attraverso l’intesa tra i due giganti, riguardano tutti gli acquisti dei clienti del circuito Mastercard effettuati negli Stati Uniti, e hanno consentito all’azienda di Mountain View di introdurre nel 2017 uno strumento avanguardistico per la valutazione della pubblicità online.

A rivelarlo è un’inchiesta di Bloomberg che riporta le testimonianze anonime di persone che avrebbero lavorato personalmente alla trattativa. Finora non è arrivata nessuna smentita da parte delle due aziende.

[do action=”citazione”]Si chiama Stores Sales Measurment, lo strumento che Google da circa un anno offre ad alcune aziende americane, e segna un punto di svolta nel grado di invadenza di Big G sulle vite dei suoi utenti.[/do]

Infatti le informazioni personali che Google ha comprato da Mastercard non riguardano le transazioni online degli utenti, ma quelle offline.

Funziona più o meno cosi: Google fa comparire all’utente una pubblicità basata sulla profilazione delle sue ricerche; se viene cliccata Google annota il click. Acquisendo i dati sugli acquisti fatti direttamente in negozio con Mastercard, Google incrocia i dati ed è in grado di controllare se l’utente che aveva cliccato sulla pubblicità ha poi effettivamente acquistato il prodotto in un negozio.

Una delle più grandi incognite del settore dell’online advertising è la corrispondenza tra il costo della pubblicità e il reale impatto sugli acquisti. Ovviamente fin’ora era relativamente facile calcolare la corrispondenza tra pubblicità e acquisti online. Con l’innovativo strumento di Google, creato grazie all’affare con Mastercard, si è in grado di misurare l’impatto delle pubblicità online sugli acquisti fatti nei negozi, off line, nella vita reale.

La vita offline degli utenti è l’oggetto del desiderio di tutte le aziende che fanno profitti nel mercato dei dati. Le imprese infatti ricercano informazioni quanto più dettagliate possibili sui consumatori per targetizzare al massimo la pubblicità, ottimizzandone i costi.

E se i dati sembrano un bene inesauribile il mantra del data mining è quello di estrarre dal mare dei dati quelli utili a profilare in maniera quanto più dettagliata possibile la personalità di ogni singolo consumatore.

[do action=”citazione”]Se i comportamenti online sono già praticamente tutti tracciati e vendibili, l’ultima operazione di Google opera un inquietante sconfinamento nella real life.[/do]

 

Il motore di ricerca ci aveva già provato lanciando il Google Wallet, un app che consente di effettuare pagamenti tramite il proprio account Google sia online che negli stores, proprio nel tentativo di acquistare informazioni sugli acquisti offline. L’iniziativa tuttavia non ha avuto grande risonanza tra il pubblico. L’altro strumento di estrazione data di Google è la Location History su Maps, cioè il tracciamento dell’ingresso dell’utente in un esercizio commerciale, attraverso la rilevazione della posizione. Questa opzione tuttavia non consente di sapere se l’utente, oltre ad entrare, abbia anche effettuato degli acquisti.

Stando ai testimoni di Bloomberg, Google avrebbe discusso accordi simili anche con altri circuiti di pagamento senza che però si sia arrivati a un’intesa. Mastercard copre più di un quarto del volume degli acquisti negli Stati Uniti. La società per azioni che unisce più di 25mila istituti finanziari nel mondo già vendeva data ai suoi partner commerciali per fornire strumenti di valutazione delle campagne pubblicitarie, come ha affermato il portavoce Seth Eisen chiamato a rispondere del caso Google. Secondo la compagnia, si tratterebbe però di dati aggregati, macro trend di consumo, e non di informazioni personali sui singoli utenti.

Google per ora si rifiuta di commentare nel dettaglio la notizia. Un suo portavoce ha affermato che “Prima di lanciare Sales Stores Measurment ci eravamo premuniti di un sistema di crittografia end-to-end che impedisce a Google stesso ed altri attori commerciali di acquisire informazioni personali sull’identità degli utenti”. La difesa di Google quindi sembra puntare sull’anonimato, come a dire che l’azienda acquista e vende il nostro comportamento commerciale senza però violare l’identità privata del consumatore. Tuttavia, attraverso la miriade di app e programmi di sua proprietà Google acquisisce una quantità enorme di informazioni su ogni singolo utente, e questo rende farraginosa l’argomentazione in sua difesa.

L’altra obiezione avanzata dal motore di ricerca è che il meccanismo di controllo degli acquisti funziona solo se l’utente è “loggato” da uno dei suoi account Google e che ogni utente è libero di disattivare in qualsiasi momento l’opzione della personalizzazione della pubblicità, sottraendo all’azienda la possibilità di aggregare e vendere i dati basati sulle ricerche. Tuttavia l’opzione è attivata di default quando si apre un account Google. La possibilità del cosiddetto “opt out” non può giustificare un’ingerenza sempre meno controllabile sulla privacy degli utenti.

Per far fronte all’egemonia tentacolare di Google, che quasi spaventa i broker internazionali con il suo ritmo di crescita nel volume di vendite pari al 20% annuo, sicuramente la politica istituzionale ha un ruolo centrale, potendo porre dei limiti legali ed economici alla ferocia capitalista della piovra. Prima che questo accada però c’è sempre la buona vecchia scuola del granello di sabbia nell’ingranaggio, quindi, tanto per cominciare, facciamo “opt out” dalla profilazione commerciale di Google.

Ecco come: