Google sarebbe pronto a tornare in Cina, dopo la «cacciata» del 2010. E lo farebbe con una app per Android «già censurata» di comune accordo con Pechino.

La notizia è stata resa nota da «The Intercept», il magazine che con gli articoli di Glenn Greenwald rivelò al mondo il Datagate; secondo le fonti e i documenti in possesso del sito, Google starebbe dialogando con i funzionari cinesi per introdurre una app di ricerca per smartphone, già filtrata sulla base delle richieste del partito comunista. Il progetto si chiama «Dragonfly», sarebbe in lavorazione da tempo e potrebbe vedere la luce già nei prossimi nove mesi. L’intoppo potenziale è l’attuale situazione delle relazioni tra Cina e Stati uniti, preda dello scontro commerciale tra i due paesi.

Secondo quanto rivelato, l’app di Google prevederebbe già al proprio interno i filtri che avrebbe richiesto Wang Huning in persona, membro del comitato centrale del Politburo e considerato il vero e proprio ideologo del presidente Xi Jinping, nonché il fautore delle teorie del «neo-autoritarismo». Su questo «ritorno» eventuale di Google in Cina, si possono innervare alcune riflessioni che, partendo da Pechino, disegnano le attuali strategie degli ex ragazzi terribili della Silicon Valley. Innanzitutto: Google, nel 2010, spostò le proprie attività a Hong Kong su indicazione del governo cinese, dopo una dura polemica legata alla volontà del motore di ricerca di non accettare la censura cinese. Fu una soluzione che risultò gradita a entrambi: la cosa più importante, per i cinesi, è non «perdere la faccia» e vale anche per i propri avversari: mai umiliare il nemico. Da quel momento, però, il mercato della rete cinese è cresciuto, così come sono cresciute le aziende cinesi.

Oggi – e non è un caso che Google abbia pensato a una app – il 95 per cento degli oltre 780 milioni di utenti cinesi, si collega all’internet con uno smartphone. Dal 2010 i numeri sono cresciuti, così come la forza globale della Cina. Ma questo «ritorno» di Google non sarebbe da considerarsi come un elemento di totale novità: dopo le vicende del 2010, l’azienda che oggi è guidata dall’indiano Sundar Pichai, dal 2015 è già ampiamente tornata in Cina.

Google sta finanziando da allora un centro di ricerca per l’intelligenza artificiale a Pechino e di recente ha investito in una startup cinese specializzata in Ai (e tecnologie vocali). Mountain View ha dimostrato di aver compreso due cose: che l’intelligenza artificiale poteva essere una porta per riaffacciarsi in Cina e che finanziando ricerca e aziende cinesi si sarebbe ripresentata di fronte alla dirigenza cinese in modo più consono.

Le startup cinesi con focus sull’intelligenza artificiale, oggi, sono quelle che raccolgono il maggior numero di finanziamenti da fondi e aziende nel mondo, superando quanto raccolto dalle startup americane. Siamo di fronte a un paradosso per chi ancora leggeva la Cina come «fabbrica del mondo», o una conseguenza ovvia per chi – invece – segnala da tempo gli investimenti cinesi in termini di innovazione tecnologica: oggi le aziende del mondo occidentale, se vogliono innovare, devono andare in Cina. Ma «andare in Cina» significa ritrovarsi di fronte il concetto di «sovranità digitale» su cui Pechino non transige: la rete sarà pure globale, ma a Pechino, dicono i funzionari, si fa come dicono loro. Google ha pagato il centro di ricerca, la startup e ha riconquistato un biglietto da visita presso i dirigenti del Pcc, ma i tempi sono cambiati: ora le regole le dettano a Pechino.