Quattro danzatori, tre acrobati, ventiquattro non professionisti. Insieme saranno i protagonisti di uno degli spettacoli più attesi dell’edizione 2018 del festival BolzanoDanza: Good Passports Bad Passports, in scena il 16 luglio in prima ed esclusiva italiana, titolo firmato nel 2017 da Helena Waldmann, regista e coreografa tedesca per cui l’arte apre inevitabilmente riflessioni politiche. Due anni fa, sempre al festival altoatesino, Waldmann presentò Made in Bangladesh, pezzo in cui il tema della condizione dell’artista in Occidente si intrecciava in modo sorprendente con uno spaccato sullo sfruttamento femminile nell’industria tessile, in questa edizione l’incontro scontro tra linguaggi del corpo di Good Passports Bad Passports sollecita riflessioni su questioni cruciali del nostro tempo come il concetto di confine e il rapporto con l’immigrazione. «Quando cominciai a lavorare allo spettacolo» spiega Waldmann «il passaporto della Germania era il “miglior” passaporto del mondo: accesso senza visto o con il solo visto di ingresso a 177 paesi stranieri. Quest’anno ci supera il Giappone, ma la facilità di movimento è sempre altissima. Sono una coreografa tedesca, ho un passaporto privilegiato. Ma se sei un afgano, e io spesso lavoro con afgani, iraniani, hai il “peggior passaporto” del mondo, l’ultimo della lista: nel 2016 apriva le porte a 25 paesi. È una situazione squilibrata. Persone che lavorano con me hanno rischiato più volte di perdere l’aereo, sono stati maltrattati, mentre io passavo i controlli senza difficoltà. Anche in Turchia mi hanno raccontato di problemi tali per ottenere un visto, che alla fine c’è chi decide di lasciar perdere. Good Passports Bad Passports ha preso spunto dal contrasto tra popoli che hanno il privilegio di muoversi liberamente e paesi che non ce l’hanno. Ho deciso di lavorare sulle differenze che i passaporti creano servendomi del contrasto tra due culture del corpo, la danza contemporanea e il nuovo circo. Il pensiero sul movimento dei danzatori e degli acrobati è profondamente diverso, è stato sorprendente constatarlo durante le prove in studio. Nello spettacolo la loro differenza rivela due mondi non connessi che per lavorare bene insieme devono mettere in moto una forte volontà di condivisione. Attraverso le loro difficoltà racconto il nostro quotidiano: non capiamo la lingua e la cultura dello straniero, così come lo straniero non capisce la nostra lingua e la nostra cultura, ci vuole del tempo per conoscerci e comprenderci».

Agli acrobati e ai danzatori si aggiunge in ogni città una ventina di volontari non professionisti…

«Mi interessava avere in scena un gruppo che rappresentasse visivamente la nostra società, ho chiesto al festival di Bolzano di trovare persone di età compresa tra i 20 e i 70 anni. Sono loro che nel corso dello spettacolo costruiranno un muro di uomini, una parete che separerà le due culture in opposizione, gli acrobati da una parte, i danzatori dall’altra. Una catena umana, come poliziotti che tengono a bada lo scontro. È un muro di separazione, fatto non di pietre, ma di persone, ognuno con la propria storia, un muro pieno di tristezza perché mette in luce come siamo noi a creare barriere, a innalzare confini: persone che separano persone, questa è la realtà che stiamo vivendo».

In questi giorni si parla molto delle leggi sull’immigrazione, anche in Germania si è sfiorata la crisi tra la cancelliera Merkel e il ministro dell’Interno Seehofer sui centri di transito e la chiusura dei confini. Cosa ne pensa?

«Onestamente non capisco perché si debbano chiudere i confini, non ne vedo la ragione. L’impressione è che arrivino in Europa moltissimi migranti, ma in realtà non sono così tanti. In Germania la proporzione è di un solo migrante su ottanta tedeschi. Questa è la verità. Viviamo nella paura che i migranti si prendano le nostre risorse, i nostri beni, i nostri soldi, pensiamo che con loro tutto cambierà, ma siamo in errore. Molte persone sono così impaurite che non riescono più a vedere la realtà. La nostra società ha bisogno di questa gente, di giovani, di persone che lavorino, ci sono così tante situazioni in cui c’è bisogno di loro. La situazione è grave: se uno straniero arriva in Europa e noi lo forziamo a stare in un campo profughi, senza poter lavorare, senza poter integrarsi, senza poter diventare parte della nostra società, allora sì che nascono i problemi. Quando gli stranieri hanno l’opportunità di lavorare, di integrarsi, sono felici, le leggi sull’immigrazione di questo dovrebbero occuparsi».

Presentando il suo spettacolo lei cita una frase di François Mitterand sul nazionalismo… 

«Sì. Abbiamo avuto la fortuna di avere Mitterand tra gli artefici dell’Unione Europea. Diceva: «le nationalisme, c’est la guerre! (il nazionalismo, è la guerra!)»: mi sembra impossibile che ci si stia dimenticando un principio così fondamentale dell’unione europea. Mi chiedo se stiamo impazzendo, è incredibile quello che sta avvenendo anche nell’America di Trump, in Turchia, l’ondata di nazionalismo ci porterà in un mondo dominato da dittature?»

Che compito ha per lei l’arte in tutto questo?

«Penso che l’arte debba dare voce al nostro comportamento. Il suo ruolo non è quello di trovare soluzioni, ma di spronare le persone a ripensare le loro idee, perché non guardino le cose da un’unica prospettiva. L’arte per fortuna lo può fare, ha il permesso di espressione».