Goodland, start up innovativa e l’associazione No Cap, no caporalato, presentano insieme il proprio lavoro e aprono la discussione su un tema cruciale: possono le aziende profit, le imprese tutte limitarsi a perseguire il proprio business, magari condito da un importante volume descrittivo il bilancio sociale, in un continuo deteriorarsi delle condizioni ambientali e sociali a livello planetario? In un costante consumo e distruzione dell’ambiente che è bene di tutti e di una galoppante diseguaglianza economica e sociale che produce milioni di profughi, di nuovi schiavi, di poveri senza speranza di riscatto?

L’attuale gestione delle risorse naturali e umane e le politiche che governano il pianeta concepiscono solo l’accaparramento delle risorse, il loro consumo fino alla distruzione e mai la loro rigenerazione. Al degrado ambientale, conseguenza di un approccio del tutto primitivo alle risorse del pianeta, si accompagna, come Alex Langer scriveva 30 anni fa, quello sociale. È l’Occidente il maggior consumatore di risorse ambientali del pianeta, ma le principali conseguenze si scaricano soprattutto nel sud del mondo, dove in modo devastante si concretizza il cambiamento climatico e quindi sociale.

IL MONDO DELLE IMPRESE, molto più che non i singoli individui, ha una grande responsabilità sul depauperamento ambientale e sociale. Sviluppare, produrre e distribuire manufatti e servizi genera economia e profitto e implica, allo stesso tempo, l’affermarsi di modelli, comportamenti e politiche che plasmano l’esistente, fanno cultura, contribuiscono a definire la realtà attorno a noi. Nel bene e nel male. Le imprese più lungimiranti che non vogliono continuare a consumare, che significa distruggere, comprendono bene come ambiente e territorio non possano essere considerati patrimoni illimitati dai quali prelevare il meglio e a man bassa a proprio esclusivo vantaggio. Sono consapevoli invece di quanto sia urgente attivare una sempre più audace e fruttuosa reciprocità.
Dall’estrarre al prendersi cura, applicando una sorta di strategia di restituzione, di ritorno magari con ristorno di quanto prelevato. L’impresa nuova, che intende realmente essere utile e come tale distinguersi e risultare sempre più apprezzata e riconosciuta, è quella che reinterpreta la propria missione, non più focalizzata solo nel business che gli è proprio ma anche verso gli altri ovvero le persone e l’ambiente qui inteso come territorio a cui portare valore. Proteggendo e rafforzando entrambi attraverso un’azione concreta e utile.

Non è più sufficiente soddisfare shareholders e stakeholders come insegnano i canoni classici, ovvero creare profitti alla proprietà attraverso il consenso dei propri clienti e mondi vicini. L’impresa nuova va oltre, contribuisce a rigenerare ambiente e tessuto sociale.

IN MODO CONCRETO E SOPRATTUTTO RIPARATIVO. La riparazione, ovvero l’effettivo risultato che migliora le condizioni di partenza, diverrà un metro di misura e validazione delle azioni ambientali e sociali delle imprese, della loro distintività e impegno non formale. Molto oltre i bilanci sociali e la corporate social responsability, spesso innocui e inerti negli effetti, questo è il tempo di passare dalla comunicazione alla relazione, dal marketing infingitore a quello che crea coscienza, dal raccontare (storytelling) al fare (storydoing).

E il territorio, a partire dal proprio ma anche da quello di approdo dei prodotti e dei servizi offerti, diviene essenziale banco di prova. È tempo di mettere al centro non il mercato, definizione divenuta aliena e indistinta, ma il cambiamento che si persegue, la riparazione che si individua più urgente o più alla portata dell’impresa. Non parliamo qui di solidarietà, sempre benvenuta, e meno che mai di filantropismo: parliamo di visione d’impresa e di sua azione conseguente. I diversi contenuti, quello privato e quello socio-ambientale, non più separati ma inclusi nel medesimo progetto strategico di cui l’impresa si dota. Un modello d’impresa che si organizza non solo sull’efficienza ed efficacia operativa ma che include nel proprio piano strategico la sua indispensabile funzione riparatrice e riattivatrice di società e ambiente.

NELLA PRODUZIONE DI CIBO è indispensabile parlare di agricoltura della restituzione, che significa la diffusione di una vera pratica agro-ecologica. Non si tratta di un nostalgico ritorno a pratiche del passato ma della reale rivitalizzazione di interi territori non più abitati. L’impresa nuova ha bisogno di nuovi modelli, non più settoriali ma trasversali. Le imprese che vedono questo futuro, che condividono, questa visione devono allearsi e relazionarsi concretamente anche se impegnati in settori molto diversi.

È sempre più necessario operare fuori dalle logiche corporative e l’agricoltura dovrebbe uscirne per prima vista la sua diretta funzione ambientale e sociale: produrre cibo sano e buono prendendosi cura di campi, colline e montagne. Se il contesto territoriale diventa strategico per l’impresa nuova, questa non può che relazionarsi strettamente con tutte le imprese vicine che ne condividano la visione.

I NATIVI LAKOTA, CHE VUOL DIRE AMICI, confinati nelle Badlands del sud Dakota, affermavano e affermano ancora oggi che non esistono terre cattive. Tutta la Terra è Goodland, buona terra, perché offre sempre vita. Visione che per noi si fa subito azione, pratica effettiva, nel primo ambito che è quello agricolo e alimentare con obiettivi ben chiari: Yvan Sagnet, giovane presidente camerunese dell’associazione No Cap, insieme all’instancabile e generoso Gianni Fabris di Rete per la Terra, ad aprile di quest’anno sbalordiva tutti affermando che i lavoratori, a partire dai migranti dei ghetti, per la campagna del pomodoro avrebbero dovuto avere un contratto sindacale regolare, la visita medica il giorno prima dell’inizio del lavoro, l’accesso ai mezzi di trasporto per raggiungere i campi, un abbigliamento adeguato (tute e scarpe antitaglio), un vero alloggio dove dormire. Come la nostra legislazione prevede. L’incredulità era forte perché le condizioni dei lavoratori impegnati in campagna erano ben altre.

TUTTO CIÒ È DIVENTATO FATTO COMPIUTO: si sono coinvolti agricoltori, società civile, catene distributive, amministrazioni. Si è scoperta una gran voglia di fare per cambiare e gli esempi di buona pratica si moltiplicano. In Sardegna, Felice Floris e Roberto Congiu, leader del movimento dei pastori, dopo averci aperto la loro casa, le loro stalle, i loro magnifici pecorini, hanno iniziato la loro assemblea proclamando il «pastoralismo resistenziale». L’esistenza e la dignità, il necessario riconoscimento del proprio ruolo vengono prima del prodotto, dei prezzi, delle rivendicazioni.

L’impresa che attraverso l’azione ripari, rigeneri, contribuisca non solo alla ricchezza ma ristabilisca i fondamentali di un equilibrio che sia equità.

A Bologna il 10 dicembre una conferenza stampa e un dibattito in diretta streaming lanceranno l’urgenza di un cambio di paradigma, della sperimentazione di un nuovo modello, della necessaria costruzione di alleanze mirate con determinazione al cambiamento. Con un’azione energica e pressante, almeno quanto il degrado di ambiente e società.