Nel novembre del 1970 pubblicai sul «Burlington Magazine» un articolo nel quale attribuivo a Gian Lorenzo Bernini il piedistallo ligneo che regge uno dei suoi primi marmi, il San Lorenzo sulla graticola. Non intendevo ovviamente sostenere che lo scultore avesse intagliato con le sue mani anche il tronco in fiamme, ma ero sicuro che la concezione dell’intero capolavoro fosse totalmente sua.
In questo sostegno si descrivono minutamente le fiamme che porteranno ad una morte dolorosissima il santo omonimo dello scultore. La statua, oggi agli Uffizi, era stata acquistata negli anni trenta da Alessandro Contini Bonacossi presso il capo della famiglia Strozzi, che la custodiva nel proprio palazzo di Firenze. Lì era arrivata nell’Ottocento da Roma dove la famiglia aveva un’altra residenza e dove un loro membro, Leone Strozzi, aveva acquistato la statua direttamente dal Bernini.
Il mio articolo fu il primo ad illustrare l’opera in marmo sul piedistallo di legno, l’albero in fiamme dipinto color di noce e dorato in una magnifica bicromia. Perché era stato sempre ignorato? Non poteva essere messo in dubbio che le due parti fossero originariamente collegate giacché sul piano ligneo era inciso lo stemma degli Strozzi. D’altra parte è difficile negare che l’andazzo stilistico dell’opera inseguiva perfettamente un’idea precisa: il tronco ardente che reggeva il piano d’appoggio era composto in modo tale che le fiamme di legno, marroni e oro, continuavano in quelle di marmo nella graticola. È questa un’idea geniale, assolutamente degna del Bernini.
Mi sono sempre chiesto per quale motivo fin dalle prime volte che questo lavoro venne pubblicato fu sempre separato dal suo sostegno, ciò che rendeva un po’ goffa la sua presentazione, messo come sempre fu su piani senza un particolare senso o addirittura su un tappeto drappeggiato come accade nella prima bellissima monografia su Bernini, di Stanislao Fraschetti, che data al 1900.
Sono passati cinquanta anni dal mio articolo e questa idea è diventata per me un vero e proprio rovello che mi fa spesso dubitare delle mie capacità. Mi sono anche dato una spiegazione. In questo ultimo mezzo secolo la storia dell’arte è molto cambiata. La scuola da cui io vengo, la scuola dell’occhio, non conosceva questi problemi perché, appunto, il capostipite di questo modo di agire e pensare, Roberto Longhi (e il suo modello, non sempre amato, Bernard Berenson), proponeva di servirsi per qualunque decisione stilistica e quindi attributiva di ciò che si era in grado di definire con la capacità dei propri sensi, e per essere più specifici della vista. Non starò qui a spiegare attraverso quale evoluzione Longhi, e pochi altri suoi colleghi, fossero in grado di indovinare la qualità, l’autografia, l’essenza poetica, di una determinata opera d’arte convincendo non solo sé stessi ma anche gli altri.
A questa scuola, indubbiamente idealista, si finì per non prestare più troppa fede col passare degli anni. E col tempo spesso è venuta ad avverarsi una famosa battuta del vecchio Berenson: «pover’uomo, crede ai documenti». A dire il vero credere troppo ai documenti è come prestare troppa fede alle preghiere – ma a qualcosa, in un modo o in un altro, bisogna pur credere. Diciamo, per incominciare, che io comunque ho fede nei miei occhi o anche in una capacità altrettanto discutibile, il gusto. Non siamo sempre certi dell’esistenza del gusto ma assolutamente sicuri quando non è presente. Mi si dovrà pur convincere che l’opera esaminata risulterebbe più persuasiva se si levasse il tronco da me proposto come sua base.
Suggerisco di fare in questo modo: prendete un foglio di carta e coprite il tronco in fiamme; credo che nessuna persona potrà negare come l’insieme sia assai più convincente se completo. Esiste però un problema: devo ancora convincere me stesso. Nessun uomo è così forte da difendere da solo ciò che altri attaccano anche senza motivi precisi. Non esistono documenti che provino senza discussione la mia proposta. Ma non esistono nemmeno documenti che provino l’opposto. Che fare? San Lorenzo muore bruciato su una graticola e accetta il suo martirio per amore di Dio. I biografi dello scultore addirittura scrissero che il Bernini ritrasse il proprio volto sofferente e rassegnato guardando in uno specchio. Sarà vero? Neppure in questo caso abbiamo un documento che lo comprovi ma l’espressione sembra ben riuscita.
Fino ad adesso le varie persone che hanno negato la possibilità della mia attribuzione (con relativa umiltà ho accettato di negarla anch’io in qualche occasione, ma non più oggi) non sembrano aver cambiato idea. Ma neppure io.