Guerra del Vietnam, apartheid in Sudafrica, violenze e torture compiute da mercenari americani: sono questi alcuni dei temi rappresentati nelle opere dell’artista americano Leon Golub. Nato a Chicago nel 1922 e morto a New York nel 2004, Golub si è formato alla School of the Art Institute di Chicago dove ha sperimentato un approccio figurativo e narrativo in pittura, a cui ha conferito significati di carattere storico e sociale. È stato questo interesse ad allontanarlo dallo stile dominante del tempo: l’Espressionismo astratto newyorkese, rappresentato, tra gli altri, da Pollock, Rothko e de Kooning. Dopo un lungo soggiorno in Italia e in Francia, si trasferì a New York nel 1964, e con la compagna Nancy Spero fondò il gruppo The Artists and Writers Protest Against the War in Vietnam. L’attivismo politico lo portò a rappresentare la Storia a lui contemporanea e i massacri perpetrati in nome dell’ideologia e del sistema di potere americani.

I DIPINTI DELLA SERIE Napalm, accolti con interesse dalla critica dell’epoca, ritraggono corpi di uomini nudi lacerati dalle bombe, opere di grandi dimensioni realizzate con tecniche che «tormentano» la materia pittorica. Il carattere decomposto della pittura coinvolge le membra straziate e gli oggetti rappresentati (fucili, mitragliatori, fruste e bastoni) per creare una drammaticità che amplifica le potenzialità abissali delle immagini. Nelle serie Vietnam, Interrogations e Mercenaries, realizzate tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, la tensione è rappresentata da scene di guerra o di tortura, alcune delle quali dipinte su fondo rosso, che ricordano sia il colore del sangue raffermo sia il rosso pompeiano, che lui amava e che aveva ammirato nel sito archeologico durante la sua permanenza in Italia.

NON ESISTE un’exit strategy dall’immaginario raggelante sviluppato da Golub, come testimonia la sua mostra personale ospitata dalla Fondazione Prada di Milano (visitabile fino al 15 gennaio 2018). Nella galleria Sud della fondazione sono presentate le serie pittoriche sopra descritte, mentre in quella Nord sono esposte 58 serigrafie stampate su pellicola trasparente, realizzate nel corso degli anni ’90. Un ambiente immersivo in cui le immagini prelevate dal ricco archivio di Leon Golub — composto di fotografie provenienti da riviste, libri, film, reportage televisivi — riproducono in un severo bianco e nero, interrotto da alcuni interventi color rosso cupo, la manipolazione e ricombinazione di scene di guerra, di atrocità e violenze, oltre a ritratti di gangster, sicari e frammenti di statue greche.

Le serigrafie, installate su binari di alluminio, confondono i piani della rappresentazione perché sono sospese nel vuoto e non hanno nessuna cornice a definirle. Si dissolvono i consueti, rassicuranti, confini tra lo spazio della messa in scena e quello della realtà, poiché la trasparenza del supporto fa in modo che noi, fruitori, diventiamo parte di quelle crude rappresentazioni. A questo proposito Golub ha dichiarato: «Ho rivendicato alcune cose con i miei dipinti che non tutti sono sempre desiderosi di accettare; una di queste è che anche tu ne possa diventare parte».

GOLUB PONE L’OSSERVATORE in una dimensione di disagio, perché lo rende testimone, complice o voyeur delle prevaricazioni in atto. Alcuni esempi: in Interrogations II assistiamo inermi alla complicità che ci chiedono gli aguzzini mentre torturano un uomo bendato e legato, guardando direttamente verso di noi, in Interrogations III vi è invece una donna nuda legata e torturata da due uomini, mentre in White Squad IV, El Salvador, colui che mette il corpo di un morto nel cofano di una macchina — quasi sicuramente un membro degli squadroni della morte assoldati dalla Cia durante la guerra civile in El Salvador come suggerisce il titolo del dipinto — ci guarda, per coinvolgerci nella sua azione, o per indicare che anche noi potremmo fare la stessa fine. I mercenari, sia che operino in America Latina o in Sud Africa, rappresentavano per Golub gli emissari e i «surrogati» dell’impero colonialista americano, utilizzati e pagati per sopprimere le insurrezioni terzomondiste. L’artista li connota con monumentalità e pose intimidatorie, derivati dall’osservazione della statuaria greca e romana.

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Le sue opere non rappresentano situazioni scioccanti, l’artista non è interessato a produrre immagini traumatiche, già ampliamente diffuse dai media. Anche se crediamo di aver già visto al cinema o in reportage fotografici le situazioni da lui dipinte, la sacralità, il vuoto e l’atmosfera di silenzio assordante con cui le rappresenta le rendono stranianti, atemporali ed eterne. Golub ha volutamente creato tale ambigua complessità. Anche se i dipinti nascono come reazione alla Storia a lui contemporanea, ha soppresso ogni dettaglio di cronaca per creare immagini che potessero diventare simboliche e archetipe, come ha dichiarato in un’intervista a Matthew Baigell del 1981, pubblicata su Arts 55.

LE OPERE REALIZZATE da Golub nei decenni passati ricordano ora gli scatti che hanno documentato le torture compiute ad Abu Ghraib o le prevaricazioni in atto in Yemen, Siria, Egitto o in altri teatri di guerra. Azioni che non ci vengono mostrate ma che stanno avvenendo, basti pensare a ciò che è accaduto a Giulio Regeni. Ed è questo l’aspetto straniante che avvertiamo nelle sue opere, perché in realtà ciò che lui consapevolmente dipinge è ciò che la censura cerca di occultare.
Per questo motivo i suoi dipinti ci pongono di fronte alla questione della responsabilità e della nostra incapacità di reagire a certe prevaricazioni. E anche se tale incapacità è condivisa da migliaia di persone, informate sulle violenze in atto, pensare che siamo tutti colpevoli non ci rende innocenti, come ha dichiarato il regista e scrittore Eyal Sivan alla Extinction Marathon tenutasi alla Serpentine Gallery di Londra nel 2014.
Curata da Germano Celant, la mostra da Prada rientra nel programma espositivo dedicato a Los Angeles e Chicago, città americane meno celebrate rispetto a New York, nonostante il loro significativo apporto all’arte contemporanea. Se la prima era stata indagata con la rassegna di Edward Kienholz e Nancy Reddin Kienholz, è ora la volta di Chicago, città in cui la scena artistica è stata connotata da impegno politico, narrazione figurativa e radicalità grafica. Aspetti che l’hanno messa in secondo piano rispetto alla scena newyorkese, più interessata alla dimensione impersonale e astratta del Minimalismo o a quella decorativa della Pop Art.

IL PROGETTO CHICAGO è formato da un «trittico»: dalla personale di Golub e dello scultore H. C. Westermann, e dalla collettiva Famous Artists from Chicago. 1965-1975. Quest’ultima, attraverso una selezione di 133 opere tra dipinti e sculture, presenta la vivacità della scena culturale di Chicago, grazie anche ai contributi dei Chicago Imagists (Roger Brown, Ed Flood, Art Green, Gladys Nilsson, Jim Nutt, Ed Paschke, Christina Ramberg, Suellen Rocca e Karl Wirsum) che trovavano nel Surrealismo e nell’Art Brut le loro deliranti fonti d’ispirazione, anticipando alcune sperimentazioni degli anni ’80 e ’90, come il Graffitismo e la Street Art.