Juan Guaidó, l’autoproclamato presidente venezuelano (intoccabile: più che trasformarlo in martire il governo sembra intenzionato a fargli terra bruciata intorno), ha convocato per oggi una nuova mobilitazione nazionale in tutto il paese, malgrado la scarsissima risposta popolare alle precedenti convocazioni.

Evitando di assumersi la responsabilità del colpo di Stato (sarebbe Maduro, ha accusato, a promuovere un golpe contro il parlamento), Guaidó ha invitato Gustavo Tarre Briceno, il suo «ambasciatore» all’Organizzazione degli Stati americani, a indire una riunione per discutere del «nuovo colpo di Stato» di Maduro, evidenziando come «la linea rossa» per la richiesta di una cooperazione militare straniera in Venezuela sia stata superata «da molto tempo»: «Dobbiamo valutare tutte le opzioni responsabilmente».

E se ben pochi paesi, tra quelli che pure lo sostengono, sono disposti a seguirlo su questa strada, il capo del Comando sud degli Stati uniti Craig Faller sembra al contrario sfregarsi le mani: «Siamo pronti», ha assicurato. Assai meno soddisfatto sarebbe il presidente Trump, che, secondo quanto ha riferito mercoledì il Washington Post citando fonti della Casa bianca, avrebbe criticato la strategia eccessivamente interventista in Venezuela, accusando i suoi consiglieri, in particolare Bolton, di avergli fatto credere che sarebbe stato facile rimpiazzare Maduro con Guaidó. Che perde pezzi, in fuga verso le ambasciate straniere.

Il primo a scappare è stato il coordinatore del partito Voluntad Popular, Leopoldo López, che, dopo essere stato liberato dalla prigione domiciliare e aver guidato il colpo di Stato con Guaidó, si è andato a rifugiare nella residenza dell’ambasciatore spagnolo. Richard Blanco ha chiesto ospitalità alla sede diplomatica dell’Argentina e Mariela Magallanes, sposata con un italiano e in attesa della cittadinanza, ha fatto lo stesso con l’ambasciata d’Italia a Caracas, dove ha scelto di rifugiarsi anche il deputato italo-venezuelano Américo De Grazia, con la scusa di non voler essere «mostrato come un trofeo» o «usato come un ostaggio» da una narcodittatura.

Il più serio è stato il segretario generale di Acción Democrática Henry Ramos Allup: «Se vogliono arrestarmi – ha detto – che vengano pure. Io non chiederò asilo in ambasciata e neppure fuggirò dal paese, né legalmente né illegalmente».

Era il 4 febbraio 1992 quando un gruppo di militari, sotto la guida di un giovane tenente colonnello dei paracadutisti, Hugo Chávez, tentò un golpe contro il governo corrotto e ultraliberista del presidente Carlos Andrés Pérez.

Quando il golpe fallì, Chávez non corse a rifugiarsi in un’ambasciata: si consegnò e si assunse la responsabilità dei suoi atti, riconoscendo il fallimento (por ahora) e pagando con il carcere. Ventisette anni più tardi, i responsabili del tentato colpo di Stato contro Maduro mettono in scena uno spettacolo meno decoroso, fuggendo nelle ambasciate straniere.