Si è concluso ieri il maxi-processo noto come «processo del reggimento della guardia presidenziale», dal nome della prestigiosa unità dell’esercito turco coinvolta nel tentato golpe del 2016 e per questo successivamente disciolta.

I giudici della 19a Alta Corte Penale di Ankara hanno comminato sentenze di condanna per 149 dei 497 imputati, inclusi 32 ergastoli di cui sei aggravati, provvedimento che nega ogni futura possibilità di libertà condizionale. Ad altri 106 imputati sono state inflitte condanne variabili tra i sei e i 16 anni, per gli 11 ancora latitanti non si è giunti a sentenza definitiva.

Tra i condannati anche Umit Gencer, il tenente colonnello che la sera del 15 luglio 2016 obbligò la presentatrice della televisione pubblica TRT Tijen Karas a leggere in diretta nazionale il comunicato dell’autoproclamato Consiglio «Pace a Casa», con cui si annunciava il golpe al paese.

Il processo era parte del filone di azioni giudiziarie scaturito dal tentato golpe in Turchia del 2016, durante il quale 251 civili furono uccisi e oltre 2mila feriti nel tentativo riuscito di fermare le fazioni golpiste dell’esercito. Iniziato nell’ottobre 2017 per un totale di 243 udienze, il processo ha visto alla sbarra militari accusati di essere membri della rete religiosa chiamata Hizmet (o con il dispregiativo Cemaat) e guidata dall’imam Fethullah Gulen, per il governo ideatore del tentato golpe.

Ankara lo accusa di essere dietro una lunga campagna per rovesciare lo Stato attraverso l’infiltrazione nelle istituzioni turche. Gulen, ex alleato di Erdogan, ha sempre negato ogni responsabilità.

MENTRE SI AVVIANO alla conclusione i processi a carico di militari, funzionari statali e semplici cittadini accusati di simpatizzare per le forze golpiste, non è mai stato possibile fare chiarezza sulle responsabilità politiche del tentato golpe.

A nulla sono serviti i tentativi dei partiti di opposizione di istituire una commissione che fornisse al parlamento turco gli strumenti per fare luce sui legami tra mondo della politica e le formazioni golpiste.

Il riferimento va in particolare, ma non esclusivamente, alla storica alleanza tra l’Akp di Erdogan e la Hizmet di Gulen, oggi argomento tabù, e dal cui collasso negli anni a cavallo tra il 2009 e il 2013 si può far risalire la catena di eventi che avrebbe poi condotto ai carri armati del 15 luglio.

Von der Leyen in piedi, Michel ed Erdogan si prendono le sedie (Foto Ap)

LA COMPOSIZIONE delle forze golpiste, le dinamiche degli eventi e le responsabilità individuali e collettive del golpe continuano a essere in Turchia oggetto di un dibattito pubblico acceso, ma appena sussurrato, reso pericoloso dal clima tossico, in cui non allinearsi alla narrativa ufficiale corrisponde, agli occhi delle autorità, a un’effettiva ammissione di solidarietà verso i golpisti e di conseguenza ad azioni giudiziarie ed extragiudiziare anche molto pesanti.

L’AUSPICATA VERITÀ che scaturisce dalle aule di tribunale continua a essere macchiata dalle accuse di pestaggi, violenze e torture nelle carceri, denunciate più volte da Amnesty International, dall’uso sistematico di leggi speciali che hanno reso i procedimenti giudiziari torbidi e dal progressivo restringimento del diritto di difesa nelle aule di tribunale.

Vicende su cui l’Europa avrebbe potuto provare a esercitare una sua influenza regionale, in un tempo in cui la candidatura turca all’Unione era ancora credibile. Ma che oggi si rivela nel penoso siparietto della seggiola negata alla presidente della Commissione Von der Leyen durante l’incontro con Erdogan, sintomo visibile dell’impotente e alquanto cinico assistere dell’Europa al consumarsi della tragedia turca.

AL DI LÀ DEL DESIDERABILE fallimento dell’ennesimo golpe militare, di cui la Turchia è stata fin troppe volte periodicamente vittima nel corso del XX secolo, gli eventi del 15 luglio 2016 hanno rappresentato il culmine violento di uno scontro di potere intestino che ha prodotto una vittima: la democrazia turca.