A 24 ore dal putsch che lunedì ha di nuovo cambiato le carte in tavola nella complessa crisi politica del Sudan, il generale Abdel Fattah al Burhan tira dritto. L’espressione sempre accigliata, il tono tutto sommato conciliante, ieri ha spiegato che lo scioglimento del governo di transizione e del Consiglio sovrano (da lui presieduto) è servito a «scongiurare una guerra civile».

CHE LA CONVIVENZA tra militari e civili sarebbe stata difficile se non impossibile si sapeva fin dall”intesa sul dopo-Bashir faticosamente raggiunta nel 2019 . L’insofferenza dell’esercito, che in base agli accordi dopo 21 mesi avrebbe dovuto cedere la guida del Consiglio sovrano a un civile, ha trovato un pretesto nelle innegabili spaccature nate in seno alla composita coalizione governativa delle Forze per la libertà e il cambiamento (Flc), con fazioni contrapposte nelle piazze e nel palazzo, a fronte dell’«immobilismo» del governo.

 

Il generale Abdel Fattah al Burhan durante la conferenza stampa di ieri (Ap)

 

Ora nascerà un esecutivo tecnico, ha detto al Burhan, composto da personalità giovani slegate dai partiti, che proseguirà il percorso della transizione. Al termine del quale – ha assicurato – «i soldati torneranno nelle caserme». Burhan ha poi svelato la sorte toccata al primo ministro Abdalla Hamdok e a sua moglie, l’economista Muna Abdalla, prelevati dai militari all’alba di lunedì, portati “chissà dove” e dei quali era tornato a chiedere l’«immediato rilascio» il segretario generale dell’Onu Guterres. «Non sono detenuti – ha rivelato il generale – ma ospiti a casa mia. Andavano protetti dalla minaccia costituita da alcune forze politiche. Torneranno nella loro residenza quando le cose saranno risolte, forse già nelle prossime ore». Analogo discorso per la connessione alla rete, che tornerà «gradualmente» (ieri le immagini delle violenze della polizia contro le donne e gli universitari del giorno precedente avevano comunque aggirato il blocco), mentre restano sospesi fino al 30 tutti voli internazionali.

A KHARTOUM GLI APPELLI alla disobbedienza civile e alla resistenza rivolti da più parti alla popolazione hanno ripreso fin dalla notte la forma delle barricate, con copertoni in fiamme nella centralissima Juma street e in altre parti della città, secondo una strategia di “guerriglia urbana pacifica” chiamata tetris, tesa a evitare lo scontro frontale con le forze di sicurezza. Che anche ieri non hanno esitato a sparare: fonti mediche parlano finora di 7 morti e 140 feriti.

Dopo il golpe sono state sciolte anche le segreterie delle rappresentanze sindacali, che peraltro erano state azzerate e ricostituite appena due anni prima con la scusa che erano zeppe di elementi legati al vecchio regime. Le mobilitazioni del mondo del lavoro contro il golpe partono comunque dall’Associazione sudanese delle professioni, medici in testa, come ai tempi delle proteste che hanno portato alla caduta del presidente al Bashir.

Ma i militari per ora sembrano ignorare anche le unanimi e stizzite pressioni internazionali. Solo Mosca è sembrata in parte smarcarsi nel ricordare, accanto al rituale appello al dialogo, che quanto avviene in Sudan riguarda solo i sudanesi.

NON LA PENSANO COSÌ a Washington, dopo aver rimosso il Sudan dalla lista dei paesi sostenitori del terrorismo e fornito aiuti sia economici che militari al nuovo corso, esprimendo una fiducia che dopo le aperture del governo di trasnsizione a Israele e al Patto di Abramo era diventata aperta simpatia. Ieri la Casa bianca ha annunciato il congelamento di qualsiasi assistenza, informando dei contatti avviati con i paesi della regione e soprattutto con quelli del Golfo – l’altra stampella che fin qui ha salvato il Paese dal baratro economico – per una risposta coordinata.