Alle 8 di ieri sera è scattato il coprifuoco nel Paese delle pagode che inizia la prima settimana di febbraio sotto lo stato di emergenza. Alle 4 del mattino di ieri infatti, i militari birmani sono usciti dalle baracche con mezzi blindati e carri armati che già da settimana scorsa avevano iniziato – avvisaglia di quanto sarebbe successo poi alla fine del week end – a presidiare l’aeroporto, la zona settentrionale di Yangon e la capitale Naypyidaw, dove ieri si sarebbe dovuto tenere l’insediamento ufficiale del nuovo Parlamento uscito dal voto dell’8 novembre.

MA È PROPRIO QUEL VOTO, che aveva consegnato ad Aung San Suu Kyi e al suo partito una vittoria schiacciante – maggiore di quella del 2015 nelle prime vere elezioni libere ., che non è andato giù agli uomini in divisa. Che, fallito giovedì scorso un negoziato notturno tra militari e Lega nazionale per la democrazia, hanno deciso – dopo aver bollato come fake news i rumors sul golpe – per il colpo di stato.

MEZZI ARMATI dell’esercito pattugliano ora i centri nevralgici dell’ex capitale e soprattutto Naypyidaw, dove da settimana scorsa i parlamentari sono «sequestrati» dall’esercito nelle stanze d’albergo dove alloggiano in attesa di un insediamento che non ci sarà.

Tutti i leader della Lega sono agli arresti, a cominciare da Suu Kyi guardata a vista nella sua residenza. Con loro altri volti noti del Myanmar democratico mentre una dozzina di ministri e vice ministri sono stati dimissionati e sostituiti: uno spoil system in atto anche nelle province periferiche.

Pure il presidente U Win Myint è agli arresti, sostituito ad interim dal suo vice U Myint Swe, uomo dei militari in ottimi rapporti col capo dell’esercito, Min Aung Hlaing, il de facto uomo forte adesso del Paese. Sembra che l’ultimo negoziato – che verteva sullo scioglimento della Commissione elettorale e sul riconteggio del voto – sia saltato anche perché la Lega aveva detto no alla richiesta di nominare presidente proprio lui. Che a quel no ha risposto con un golpe.

UN GOLPE «COSTITUZIONALE» perché la Carta del Myanmar consegna ai militari (oltreché un quarto dei seggi parlamentari) anche la possibilità di salvare il Paese in caso di minaccia alla sicurezza nazionale. E per i militari, aver perso le elezioni – in cui il loro partito ha guadagnato meno seggi che in passato – è motivo sufficiente. Ora lo stato di emergenza proclamato da Hlaing – che gli consegna l’autorità su i poteri legislativi, amministrativi e giudiziari – durerà almeno un anno dopo il quale si andrà a nuove elezioni. Troppo facile dire chi ne sarà il vincitore.

IL WEEK END in realtà aveva fatto sperare almeno in una tregua: nella possibilità di una nuova mediazione col potere reale del Paese incarnato da Tatmadaw. Ma in realtà il week end è servito a preparare la logistica del colpo di stato, partito ieri prima dell’alba e prima che il governo potesse organizzare una qualsiasi forma di resistenza.

Anche la condanna internazionale rischia di avere poco effetto poiché – in Consiglio di sicurezza – Cina e Russia potrebbero bloccare una risoluzione di condanna o, quantomeno, addolcirla. Informalmente i cinesi avrebbero dato il loro assenso, dicono fonti locali, non tanto al golpe ma alla richiesta dei militari di contestare il voto.

L’esercito ha infatti presentato ricorso alla Corte suprema accusando una truffa elettorale su 10 milioni di schede.

Ma benché il verdetto della Corte sia stato rinviato, è cosa nota che i giudici intendessero bocciare il ricorso. La goccia che ha fatto traboccare il vaso.

COSA SUCCEDERÀ ADESSO? Si può fare l’ipotesi più buia di una dittatura senza tempo di cui sarebbe prova l’ordine di sparare a vista su chi viola il coprifuoco.

Ma è più facile immaginare un percorso che porti a una situazione di tipo «tailandese»: militari in doppiopetto col timbro delle urne da cui far uscire un nuovo equilibrio che renda giustizia al partito delle divise (Union Solidarity and Development Party) dandogli un ruolo ineludibile. Ma c’è anche uno scenario di conflitto: il processo negoziale con le autonomie regionali faticosamente costruito dalla Lega rischia ora il collasso e la rinascita di conflitti armati con gli «eserciti etnici». Un rischio che Suu Kyi aveva allontanato ma che ora grava sul futuro birmano.